Buongiorno Linda e grazie per il tempo che ci dedica. Al di là della carriera accademica, lei si sta adoperando affinché l’antropologia possa divenire un mestiere professionale riconosciuto, con applicazioni in vari campi e ricadute pratiche che, allo stato attuale, la “società” non sospetta. La cosa è ironica dato che “la società” è uno degli oggetti di studio dell’antropologia. D’altro canto, molti teorici dell’antropologia, parlano di morte della nostra disciplina. A suo avviso in che condizioni di salute versa, oggi, l’antropologia e quali sono le sue nuove frontiere?

Buongiorno, vi ringrazio e complimenti per i vostri interessanti progetti. Come è stato giustamente detto la società, con i suoi sistemi di simboli e di significati nativi che danno senso ai comportamenti, è l’oggetto, o meglio il soggetto di studio dell’antropologia. Paradossalmente però l’antropologia, nonostante sia una disciplina che possiede metodologie di analisi utilissime per la risoluzione di problemi in vari settori della vita umana, è poco conosciuta ed utilizzata. Secondo me bisognerebbe soffermarci proprio su questo paradosso per capire i limiti di una certa concezione della ricerca antropologica. Nonostante negli ultimi anni ci siano stati esempi applicativi dell’antropologia, anche con ottimi risultati, in vari settori extra accademici, è ancora forte in Italia una tradizione ufficiale, una costruzione canonica del campo disciplinare dell’antropologia in cui alcuni temi applicativi non sono considerati pertinenti. Faccio un esempio concreto. Qualche anno fa mi occupai di marketing e di ricerche qualitative di mercato applicando la metodologia etnografica e l’analisi antropologica ai trend e allo studio del target. Da più parti, sia dai miei colleghi antropologi sia da alcuni marketers, ho avvertito un iniziale pregiudizio e un senso di reciproca sfiducia davanti a questa collaborazione interdisciplinare. Il punto di vista di molti antropologi era quello di vedere il marketing come mezzo per accrescere il materialismo e rendere il consumo fine a sé stesso, mentre i marketers consideravano gli antropologi come “strani abitanti di una torre d’avorio” poco adusi alla logica della competizione. Al di là degli antagonismi, grazie all’uso dell’antropologica nel marketing e nelle ricerche di mercato, è stata proposta un’alternativa metodologica rispetto ai tradizionali criteri di indagine di tipo demografico e psicografico per la descrizione del target. In particolare quest’ultimo da inerte oggetto che subisce una logica top-down, è diventato soggetto attivo bottom-up che interpreta e che decide secondo i suoi valori. Ritengo questo esempio una delle tante frontiere possibili per gli antropologi affinché l’antropologia possa essere considerata una professione riconosciuta. Esistono inoltre, soprattutto oggi, altri contesti in cui gli antropologi potrebbero dare un maggiore contributo, come nel settore delle migrazioni in cui ancora paradossalmente la figura dell’antropologo è poco richiesta. Non credo si possa parlare di morte della nostra disciplina. Ma, a mio parare, perché l’antropologia possa essere considerata, oltre che una materia accademica, anche una professione sono fondamentali soprattutto due fattori: avere buone conoscenze teoriche della disciplina antropologica ed essere aperti ad nuovi dialoghi con altre discipline.

Linda A

Cosa la spinse a studiare antropologia e diventare antropologa?

Al di là dei romanticismi, credo che lo studio dell’antropologia non sia mai stato per me una scelta, ma uno spontaneo modo di essere. Penso che, in generale, il mio modo di avvicinarmi alle persone e ai fatti e di entrare nei rapporti con gli altri è sempre stato influenzato da un forte bisogno di capire dove mi trovavo e chi avevo davanti. Quando mi iscrissi all’Università Ca’ Foscari di Venezia nel 2001, per la prima volta fu istituito un indirizzo di studi triennale di antropologia in cui iniziai ad acquisire le conoscenze teoriche che mi fecero diventare, negli anni, un’antropologa consapevole delle potenzialità di questa meravigliosa disciplina.

7cena

Il pragmatismo ci ha dimostrato che, a prescindere dalle intenzioni di chi la teorizza, l’antropologia ha sempre degli effetti pratici che interagiscono con la realtà. Lei, ad esempio, ha svolto un’indagine di marketing antropologico – BusinessMum – il cui fine era catalogare i bisogni di una categoria articolata, trovare i punti in comune e sintetizzare i contenuti da strutturare per fare delle proposte di legge. Partiamo dall’inizio, come è cambiato il concetto di campo dall’avvento della tecnologia digitale e dei social? E come si conduce una simile ricerca?

Dal punto di vista della “storia dell’antropologia”, nel 2010 il sociologo e marketer Robert Kozinets si rivolse al contesto digitale, in riferimento ai social network, ai blog e ai forum, come possibile campo d’indagine etnografica. Kozinets coniò quindi il termine “netnografia” applicata al Web 2.0 in cui, attraverso la lettura e l’ascolto delle conversazioni generate online, è possibile studiare i consumi e le tendenze degli utenti esattamente come si fa offline. Nel 2014 mi fu chiesto, dalla presidente dell’associazione BusinessMum, di condurre un’indagine antropologica per implementare la partecipazione, sia agli eventi organizzati dall’associazione sia nelle discussioni del blog, delle madri lavoratrici iscritte all’associazione stessa. In questo caso la ricerca è stata condotta sia online che offline. Dapprima sono stati raccolti dati sul web grazie ad un software di aggregazione dei big data di cui sono state distinte le conversazioni nei blog, nei forum e nei social network. All’interno di questi spazi sono stati analizzati i contenuti dei discorsi che hanno permesso di delineare dei profili generali di madri lavoratrici che si aggregavano attorno a determinati temi legati alla maternità, al lavoro e alla gestione dei figli nella quotidianità. Sono emersi quindi valori, comportamenti, linguaggi che hanno creato delle vere e proprie “comunità immaginate” (B. Anderson). La ricerca è proseguita con alcune interviste offline a madri lavoratici iscritte all’associazione al fine di comprendere i gap valoriali tra il target e l’associazione e stabilire le manovre necessarie per avvicinare BusinessMum alla visione culturale delle sue utenti.

sciannella

Lei vive in Veneto, un tempo locomotiva d’Italia e oggi in difficoltà come del resto tutto il sistema-Paese. Come rispondono le aziende, i territori e le istituzioni al suo modo di proporre l’antropologia?

Credo che purtroppo, non solo Veneto, ma in generale in tutta Italia ci sia ancora una sostanziale chiusura davanti a proposte innovative, oltre che una cultura, così tipicamente italiana e ancora presente in molti contesti sia istituzionali che aziendali, improntata su un forte clientelismo. Parlando del Veneto esistono però alcune realtà interessanti, alcune piccole aziende che hanno deciso di rimettersi in gioco investendo su una nuova formazione. È il caso per esempio di alcune piccole aziende artigiane o agenzie di consulenza di marketing strategico nel trevigiano che si sono aperte a sperimentazioni, sia teoriche che pratiche, richiedendo anche competenze antropologiche. Come avete ricordato, il Veneto è una delle regioni in cui lo sviluppo delle piccole e medie imprese è stato, negli ultimi anni, duramente colpito dalla crisi che ha avuto effetti disastrosi sia dal punto di vista della disoccupazione sia delle vite umane. Credo però che in alcuni casi, davanti a questi fatti, anche una lucida spiegazione del momento storico che stiamo vivendo, meglio conosciuto dagli studiosi come neoliberismo, potrebbe dare degli impulsi alle persone coinvolte. Mi sono trovata per esempio a parlare, qualche tempo fa, con alcuni piccoli ex imprenditori della provincia di Venezia e di Treviso, costretti a chiudere le loro aziende. Spiegare loro che il fallimento dell’azienda non ricadeva strettamente sulla loro responsabilità gestionale ed imprenditoriale e allargare lo sguardo al contesto storico e culturale che stiamo vivendo li ha, per lo meno, liberati da alcuni sensi di colpa.

bambinamalgascia

Il mondo occidentale attuale sta confrontandosi da circa dieci anni con una crisi di paradigma e valori che sta mettendo in ginocchio le speranze degli italiani nel futuro. L’emigrazione, di fatto, supera nei numeri l’immigrazione e il saldo morti-nascite è tutt’altro che incoraggiante. Da antropologa, quanto crede che le culture altre o tradizionali possano insegnarci qualcosa? Oppure il modello di antropologia applicata deve assecondare il sistema consumistico vigente?

Io credo che, per fare fronte alla complessità del mondo contemporaneo, l’antropologia debba assolutamente mettere in guardia da concezioni essenzialiste e monolitiche di cultura che confrontano i nostri “usi culturali contemporanei” con una qualche sapienza atavica tradizionale o con “usi culturali altri”. Invece di concentrarci su schieramenti contrapposti come “culture altre” e “sistema consumistico” che ci appartiene, dovremmo cominciare a lavorare sulle relazioni che si instaurano nell’incontro etnografico tra persone e sulle possibili vie d’uscita dalla crisi dei valori che stiamo attraversando. Credo che, riprendendo l’insegnamento di Ernesto de Martino, un importante contributo dell’antropologia sia apportare una migliore conoscenza del presente da trasformare. In generale un primo passo essenziale che l’Occidente dovrebbe fare è non vedere l’altro, per esempio l’immigrato, come uno strumento per la costruzione di una qualche superiorità occidentale, e nemmeno di una equivalente e opposta inferiorità. Il cosiddetto “altro da noi” dovrebbe essere lo strumento della scoperta dei limiti dell’Occidente; in altre parole dovrebbe stimolare una nostra autoetnografia critica e un’autoconsapevolezza culturale. Com’è stato affermato, un grave problema che colpisce l’Italia è l’assenza di progetto degli italiani nel loro Paese che, oltre ad essere determinato da cause di macroscala globale, è anche il prodotto di una storia così tipicamente italiana. La crisi delle nascite mostra il transito dalla robusta tradizionalità della famiglia italiana del passato alla sperimentazione di forme di famiglia più “consone” ai nostri tempi. La famiglia ha però riconquistato un ruolo del tutto centrale, dominante nella vita quotidiana degli italiani e questo grazie al fatto che si è rivelata come l’unica istituzione in grado di garantire un minimo di sicurezza per la sopravvivenza. Bisognerebbe quindi andare oltre all’analisi della crisi in termini esclusivamente finanziari e della considerazione di poteri politici come unici esecutori di ricette salvifiche; bisognerebbe piuttosto “inventare” una nuova domesticità utilizzabile (de Martino) che, partendo dall’esistenza umana sostanzialmente storica e culturale, renda possibile un progetto di costruzione di un mondo e di una realtà vivibile.

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Quali aspettative nutre per il futuro e per la sua famiglia?

Sono nata nel 1982, vivo con il mio compagno e ho una bambina di cinque anni e mezzo. Come molte persone della mia generazione non credo più che in futuro si possa contare sul cosiddetto posto di lavoro fisso come si pensava qualche anno fa o per lo meno su una qualche rassicurante forma di garanzia. Per contro ho visto concretizzarsi alcuni miei progetti il cui scopo è sempre l’utilizzo dell’antropologia per finalità pratiche. La mia aspettativa per il futuro, la mia grande speranza, è continuare a fare ciò che faccio, con serietà e passione. A mia figlia cercherò di fornire gli strumenti e le conoscenze che nella mia vita ho costruito, per consentirle di affrontare e comprendere il mondo, sempre più complesso, che le si presenterà davanti quando sarà una donna.

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Ha avuto modo di seguire i progetti inveritas.it e tribalnetworking.net, che idea professionale ha di queste operazioni?

Rinnovo i complimenti per inveritas.it e tribalnetworking.net. Apprezzo, per entrambi i progetti, l’utilizzo di una profonda professionalità nella propria disciplina da parte di ciascun componente del team, con l’arricchente creatività che si ottiene da un’apertura e da un’autentica collaborazione interdisciplinare. L’elemento davvero peculiare che mi ha colpito in entrambi i progetti è l’uso raffinato delle equivalenze tra sapori, colori, suoni, emozioni, pensieri, sapienza, conoscenza, tradizione che funzionano da e verso il corpo, da e verso l’esperienza umana in un grande gioco simbolico e sincretico. Sia inveritas.it che tribalnetworking.net partono, e mi scuso per il gioco di parole, dall’anthropos e tornano all’anthropos arricchiti di anthropos. Proprio grazie a questa immersione nei valori vivi del contesto culturale, sia i lavori per scopi di marketing e di management sia la scoperta di nuove rotte turistiche, non possono che uscirne arricchiti. Nello spendere qualche parola per tribalnetworking.net, ogni rotta non è semplicemente un’esplorazione di uno spazio, ma ogni luogo è un’emozione dove far vivere una profonda esperienza di sé.