Buongiorno Moreno e grazie del tempo che ci dedichi. Parliamo un po’ di fotografia. In origine, il termine fotografare significava letteralmente “scrivere con la luce”. Oggi, in epoca di social e di digitale, la scrittura lascia sempre più spazio al racconto, e la lettura cede terreno rispetto alla condivisione. Qual è il tuo rapporto con la fotografia degli altri?
La fotografia è un rifugio senza tempo che per me non è sempre facile rendere intelligibile agli altri. Quando vedo le foto di altri fotografi cerco di intuire l’intimo messaggio subliminale lanciato dall’immagine, accorgendomi che la venalità e la standardizzazione hanno creato un placebo cronico sulle menti delle persone: l’apparenza nuoce gravemente alla salute. Dei contemporanei apprezzo James Natchwey, del passato Salgado in quanto il mio progetto utopistico è creare un phylum continuum con il racconto non verbale di questo autore con le mie foto.
Scattare, quando lo si fa a livelli professionali, è come cacciare: ti apposti, prepari tutto e aspetti. In altri casi, invece, si va proprio a caccia di scatti, muovendosi guardinghi. D’altro canto, cacciare rappresenta la capacità di saper attendere e immortalare un momento di piena verità. Qual è il tuo rapporto con la verità?
La verità dev’essere rubata per essere mantenuta tale, si può ricorrere a qualche enjambement per impattare sull’inconscio di massa creando dei simboli che scavano in profondità, ma il fine dev’essere a mio avviso squisitamente umanitario altrimenti si sfocia nel marketing .
Quando fotografo ho i sensi spinti al massimo, l’attenzione diventa pura astrazione non sento freddo né fame o dolore, in quel momento il mio istinto mi guida. La mia macchina diventa un mezzo di cattura metafisica, un’estensione del mio essere, capace di fermare il tempo . Mi sono sempre chiesto del perché lo faccia in questo modo maniacale, e l’ unica risposta che mi sono dato è stata legata ad un trauma del passato.
Soffro di un disturbo di personalità, sono un borderline, e per alcuni miei atteggiamenti sbagliati mi è stata negata la possibilità di vedere mio figlio Noel. Ogni giorno speravo che la luce abbracciasse mio figlio e che un giorno l’avrebbe saputa cogliere. Ad oggi annuso ogni giorno Noel, è il mio piccolo zingarello fatto di dolcezza.
Hai recentemente presentato due reportage che, personalmente, ho trovato ricchi di spunti. Uno realizzato in Africa e l’altro in sala parto. Considerando che, per noi antropologi, l’Africa è la culla di gestazione dell’umanità, la coincidenza mi ha doppiamente intrigato. Cosa ti raccontavano gli occhi dei bambini africani che hai fotografato? E cosa ispira immortalare l’origine della vita?
Quando ho visto Ocan il 27/11/2016 a Gulu, immerso in quella terra insanguinata ho pensato al mio piccolo, ed ho preso la pala in mano scavando tutto il giorno con lui. Questo mio gesto irrazionale era fatto di sorrisi e stupidità, i bambini amano i deficienti come me!!! Da quel momento avevo deciso di ritrarre Ocan. L’ ago della bilancia doveva essere tarato, cercavo una compensazione, non era l’Onirium, era la realtà. La sofferenza passionale pervadeva tutto il mio essere e nutriva il mio occhio insaziabile di verità. L’informazione è un mezzo per rendere visibile ciò che non lo è.
Il feeling con l’anima dei bambini si instaura subito, basta stabilire un contatto visivo e scambiare un sorriso senza pregiudizi.
Gli occhi sono il mezzo di comunicazione più diretto e persuasivo almeno per me. Essi ispirano magnetismo, sintonia, delicatezza, speranza, dignità e compostezza.
La compattezza dell’essere dipende molte volte dalla concentrazione e dalla dignità, i bambini avevano tutte e due queste componenti.
La forza dei deboli l’ho appresa attraverso loro, i loro occhi mi sorridevano colorando le mie giornate e caricandomi di stimoli: l’amore penetrava tutti gli strati della mie strutture mentali.
Mi sento in colpa perché io sono diventato più forte grazie a questi bambini, e mi chiedo ogni giorno: ma io cosa ho fatto per loro?? Ho acquisito queste capacità, ma non ho ancora restituito il favore. E combatterò fino alla fine dei miei giorni per restituirgli l’immenso dono che mi hanno fatto.
“Mi disseto quando piove, la mia forza è quella dei deboli, il mio sorriso quello dei forti. Il canto dell’anima riecheggia sulla mia terra di sofferenza, il dolore ferita dopo ferita eleva il mio spirito. Oggi sono monaco ribelle di una terra promessa mai conquistata”
L’energia pulsante che sentivo al Lacor Hospital risvegliava i miei sensi, essendo di natura iperattivo ed estremamente reattivo agli stimoli, ho avuto un’esplosione di emozioni che ho cercato di veicolare normalizzando il mio entusiasmo ma ho fallito drasticamente, inseguivo ossessivamente tutto, rubavo qualsiasi cosa, incappando anche in situazioni problematiche, mi divincolavo sorridendo o scappando.
La nascita è un momento di rigenerazione e un insegnamento di naturalezza e fluidità, dannatamente irripetibile in quanto io stesso non ho potuto assistere alla nascita di Noel.
In tanti, parlano della fotografia come di un ménage à trois: fotografo, soggetto e pubblico. Qual è il tuo rapporto col pubblico? Quale quello coi soggetti che fotografi?
Il pubblico è la mia platea, il cervello il mio palcoscenico. Cerco di proiettare le mie visioni senza censura, a volte vengono capite altre no, ed è normale che sia così in quanto non inseguo lo stereotipo.
Il feeling soggetto-osservatore, è una ricerca di intimità e naturalezza, le capacità del fotografo rendono tutto più fluido.
Amando i bambini e gli animali ho più sintonia con loro , quindi sono naturalmente ispirato a giocare.
Mentre la mia attenzione è rivolta in situazioni estreme, quando sono in pericolo, riesco a sintonizzarmi alla terra trovando infinite ispirazioni controverse. Alcune volte in modo random è la situazione che cerca me, investendomi con i suoi stimoli , stuzzicando il mio istinto.
Ogni fotografo ha i suoi rituali e le sue idiosincrasie. Quali sono le tue tecniche di preparazione e le tue fissazioni
Quando devo prepararmi ad un reportage mi concentro pensando alle emozioni che sollecitano il mio sistema di attacco e fuga, adrenalinizzandomi, predispongo la macchinetta sul 1/250 sec apro il diaframma a 1.4, imposto gli iso 50, montandoci il 35mm ed infine regolando la temperatura a 5400 k°.
Questo metodo mi consente di essere veloce nel regolare il diaframma aumentando o diminuendo la profondità di campo e la luminosità, con un’operatività di 5,5 fps posso rubare molte variabili.
Qual è la situazione più difficile da gestire che ti è capitata come fotografo? Quale quella più soddisfacente?
Nonostante ami il pericolo, non amo essere derubato e quindi dopo aver subito due tentativi di rapina, prestavo più attenzione a quello che facevo. Spingersi nelle zone limitrofe di Gulu da solo per poi perdersi nella giungla sotto il sole mi ha divertito, ma il solo pensiero di dovermi distaccare dalla mia attrezzatura mi ha portato ad usare più precauzioni.
Quando ho trovato Ocan ero talmente felice che mi sono messo a fare delle flessioni in verticale con lo zainetto equipaggiato, i bambini ridevano come pazzi perché lo facevo al pelo dell’acqua con il rischio di cadere con tutto quanto. Da quel momento di euforia ho preso la mia acqua e l’ho condivisa con loro, non contento giocavo a rincorrerli facendo finta di volerli mordere. Mi sono divertito tantissimo: sono stati i momenti più felici e liberi della mia vita. Non essere discriminato per la mia follia è stato un bel regalo da parte loro.
Hai seguito il lavoro di Tribal Networking. Che idea ti sei fatto? Ti ha stimolato la voglia di collaborare?
Tribal Networking è un’eco di risonanza, capace di farci sentire l’essenza delle radici, differente dalle sovrastrutture dei social, utilizza una chiave di comunicazione che arriva diretta al cuore.
Tutte le immagini nell’intervista sono © Moreno Pregno, che ringraziamo per la gentile concessione.
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