Buongiorno Lidia e grazie del tempo che ci dedichi. Recentemente ti sei occupata di linguaggio e codici museali. Sembrerebbe che l’etimo di museo sia da ricondursi al termine greco che indicava le Muse e che, con la parola museo, si indicassero le cose mirabili da raccontare e tramandare. Quali sono, secondo te, le cose mirabili da raccontare e tramandare oggi?

Buongiorno Marcello e buongiorno a tutti i lettori di Tribal Networking. Ho cominciato ad occuparmi di museografia quando ho iniziato a pensare al modo di consentire ai ciechi di avvicinarsi alla realtà del colore oltre il verbalismo; è vero invece che mi hanno sempre molto intrigato le teorie museologiche. Certo, non è un’ipotesi, l’etimologia di “museo” rinvia alle moùsai, le Muse greche, o meglio del greco antico, che hanno a che fare molto più con la memoria della parola, della vista, del gesto, quelli che oggi chiamiamo “beni immateriali”, più che con gli “oggetti” conservati nel museo. Per gli antropologi in particolare il padre eponimo non può essere a mio parere che Erodoto: dalla periferica Alicarnasso, per primo separa gli dei dagli uomini mortali, e di questi mette in mostra con piena apertura le differenze e le alterità, quando nelle sue Storie si prefigge di tramandare la memoria delle cose meravigliose da essi compiute, come uno “ktèma es aèi”, eredità sempiterna, mettendo gli uni accanto agli altri, in maniera rivoluzionaria allora, sullo stesso piano, Elléni e Barbari. E il suo è ancora un “muthos”, un racconto di ciò che egli ha visto direttamente o di cui ha raccolto di persona la testimonianza orale.
Le cose da raccontare e tramandare oggi: vedo l’oggi come una condizione borgesiana, la carta geografica in scala uno a uno. Forse oggi non possiamo che ripartire dalla Wunderkammer, per ripensare insieme ad una museografia possibile. E’ una risposta sfuggente, lo so. La domanda però è di quelle che non ti lasciano scampo!

In anni recenti, ti sei interessata di studiare e creare percorsi museali plurisensoriali costruiti con i non vedenti piuttosto che, più banalmente, per i non vedenti. Cosa puoi raccontarci di questa interessante esperienza?

Sì, questo tema, o problema, mi gira nella testa da quando ero bambina! Non so bene perché. Poi in anni più recenti, l’idea di prendere in mano la questione mi si è imposta per un caso fortuito: un colloquio telefonico con Elvira D’Amicone, allora Direttrice del Museo Egizio di Torino, ci fece riflettere entrambe, mentre era in corso una mostra di modellini di oggetti conservati nel Museo a Reggio Emilia, destinata ai ciechi, su quanto fosse limitante l’impossibilità della percezione del colore. Racconterò tutto il complesso e lungo lavoro fatto per arrivare alla mia proposta, nel libro che sto scrivendo I colori del buio. Qui mi preme rimarcare quello che dici (e che ritengo sia valido anche per i musei, ma ci torniamo più avanti): lavorare con fa la differenza, rispetto al lavorare per. In breve: ho iniziato con un esame attento di tutte le proposte e i progetti già realizzati o in corso di realizzazione. Poi una deviazione, che è propria di noi antropologi: il “lavoro sul campo”. Ho cercato e trovato i miei “informatori” ciechi, secondari in un primo momento, primari poi. Da loro è scaturito il percorso da fare: soprattutto dai ciechi primari; ognuno di loro sembrava avere un colore preferito, la cui idea (ci sta dentro l’etimo indeuropeo della radice – vid – vedere) proveniva dai racconti e dai “rosso come, azzurro come, arancione come” della primissima infanzia. Ho sistematizzato insieme ad un tiflologo, cieco primario, quel modello in un primo, perfettibile, indagabile, codice semiotico che si può consultare e provare attraverso quell’oggetto online che è più di in sito web: http://www.odorisuonicolori.it.

 

Il politicamente corretto ha trionfato, per ora. Eppure, sempre più persone cominciano a mettere sotto attacco questo atteggiamento comunicativo e di rappresentazione del reale. Secondo i suoi detrattori, esso infatti rappresenta una mera forma ipocrita che, per non affrontare i problemi reali, cambia le parole ma non i significati o i fatti. Ad esempio, mi hai detto che i non vedenti con cui hai lavorato, preferiscono essere chiamati ciechi. L’antropologia ha una ricchissima schiera di casi simili, in cui la rappresentazione del reale – orientata sul pubblico ideale – ha trasformato il reale. Questo accade soprattutto con le questioni inerenti l’identità. In che modo possiamo adoperarci oggi, come addetti ai lavori, per ripristinare un principio di realtà confacente e di mutua comprensione rispettosa?

Il politicamente corretto emerge perché c’è un deficit, anzi un crollo, di “umanità”, non solo di democrazia. Tutte le volte che abbiamo a che fare con questioni linguistiche, abbiamo a che fare con questioni sociali. Non lo dico io, come è ben noto. Noi antropologi, etnologi, linguisti,possiamo forse educare i parlanti a riappropriarsi delle parole “giuste”: un uomo senza gambe, una persona cieca, una persona sorda, una persona sordocieca, e andiamo avanti con tutte le condizioni di disabilità, non possono essere definiti oscenamente “diversamente abili”. Ecco, il nostro compito credo sia marcare la realtà della “diversità”, che non sempre è anche “buona” e “positiva”. L’”alterità” c’è, esiste, è reale, quella dei disabili in senso lato, dentro la nostra società, quella degli immigrati, dei migranti che anche noi siamo, dentro culture “maggioritarie”, quella degli anziani e dei vecchi di fronte ai giovani, quella dei bambini di fronte agli adulti, delle donne, femmine contro, ancora contro, quella degli uomini, maschi, quella dei poveri contro quella dei ricchi, in un elenco non interminabile ma tendente all’infinito. Inutile raccontarsi e raccontare orizzonti che non si realizzeranno: il “multiculturalismo” che oggi ritroviamo nella lingua dei media, è una chimera, peggio, un’espressione vuota. Il rispetto, la comprensione rispettosa, si costruiscono lottando per un mondo che non abbia come proprio centro valoriale il denaro e il potere. Non altro. E di più: penso che nessuno potrà a lungo fuggire dal percorrere quella strada. Abbiamo una sola Terra. Lei deciderà, secondo le nostre condotte di vita, se un domani non lontano ci saremo ancora o ci estingueremo.

Il museo, come detto, è luogo della memoria e degli exempla. La pratica di costruzione di una collezione o di un padiglione risponde ad un canone i cui criteri e parametri sono sia retorici che politici. Tuttavia, ultimamente, molti di questi criteri sono entrati in crisi. Come costruiresti una esposizione museale?

Difficile rispondere a questa domanda in astratto: come costruirei una esposizione museale: permanente? temporanea? Un criterio sicuro per me è l’attenzione al destinatario, ai destinatari, il ricevente di Jauss. Il criterio guida quindi non può non essere che quello della leggibilità, almeno della leggibilità; appena e dove è possibile, della dialogicità. Di sicuro oggi il museo, insieme alle due discipline e pratiche ad esso strettamente connesse, la museologia e la museografia, attraversano uno straordinario periodo di ripensamento e ridefinizione (del resto evidentissimi nella stessa scelta di ripartire da un “dizionario”: si vedano i Concepts clés de muséologie, a cura di André Desvallées e Francois Mairesse, apparsi nel 2009 in edizione e lingua francese, tradotti da allora in una diecina di lingue, in italiano nel 2016 con il titolo Concetti chiave di museologia). Penso che nella condizione e nel contesto contemporaneo, il modello da riprendere potrebbe essere quello del Musée de l’Homme, in cui la ricerca non si è mai separata del tutto dall’attività di raccolta, di costruzione delle collezioni, in tempi recentissimi di riorganizzazione espositiva. Un museo che espone e che fa ricerca: e non mi riferisco solo ai musei etnografici, ma pure a quelli d’arte.

Salvatore Settis si batte da tempo per affermare il principio che il Museo è parte del territorio e con esso dovrebbe costantemente dialogare. Di contro, vige una diffusa sensazione che il museo rappresenti un “mondo a parte”, che si conserva sempre uguale a se stesso protetto dietro le teche infrangibili e le saracinesche che separano oggetti e visitatori. Quali sviluppi senti, da antropologa, di poter suggerire a questo dibattito?

Sono del tutto d’accordo con Salvatore Settis. Il museo (ripeto, d’arte, d’etnografia, di comunità, demologico, materiale nella sua struttura architettonica, o cyber) è un “testo” che non può essere separato da un contesto (e magari anche dal cotesto), soprattutto oggi che la nuova legislazione lo ha trasformato di fatto in un “prodotto” da vendere. Urgentissimo dunque a mio parere contrastare questa deriva (che non vuol dire impedire ai musei di camminare anche con le proprie gambe, cercare forme etiche di autofinanziamento), lavorando però con le comunità, i cittadini, non solo i visitatori. Fino ad ora ho visto tentativi certo generosi, ma poco produttivi di dialogo col territorio, perché ancora vincolati al modello dell’esposizione pensata dal critico, storico dell’arte, per un pubblico assente fino a quando non varca col biglietto in mano, la soglia che lo introduce in un percorso ideato da altri, e perciò di ardua se non impossibile lettura.

L’antropologia non è una scienza esatta. Tuttavia, fra quelle cosiddette sociali, è la pratica che suscita maggior simpatia ed interesse. Ciò, a mio avviso, è più dovuto ad un diffuso disconoscimento di cosa sia realmente l’antropologia, che ad un reale coinvolgimento nei suoi metodi e fini. Oggi, l’idea (e la prassi) dell’antropologia esotica, volge al tramonto. Il campo di ricerca si è fatto più fluido e polilocalizzato. Rimangono intatti, tuttavia, il dovere di apertura e comprensione e la capacità di creare codici nuovi per dialogare con l’altro. Quali sono i principali insegnamenti di vita che l’antropologia ti ha impartito?

Ah sì, l’antropologia non è una scienza esatta! (Ne esistono? Oggettivamente, voglio dire. Formalmente certo). E l’antropologia non è stata la mia vocazione primaria (che era e resta la fisica). La mia formazione innanzitutto è linguistica e filologica, poi etnolinguistica (i miei padri restano Roman Jakobson, Emile Benveniste, e apparentemente, solo apparentemente in deviazione, Charles S. Peirce). Detto questo, più che di insegnamenti di vita, per quanto mi riguarda, parlerei di fertilissime conoscenze, di avventure mentali, di contatti umani nella ricerca di campo. Di innamoramento quando ho trovato l’equilibrio tra natura e cultura, di critica e crisi profonda verso l’antropocentrismo distruttivo.

Cosa pensi di Tribal Networking? Che giudizio dai da antropologa?

Tribal Networking. Un progetto ambizioso. Che condivido in tutto. Un sito bellissimo. Mi piacerebbe parlarne faccia a faccia.