Buongiorno Paolo e grazie del tempo che ci dedichi. In queste settimane, su riviste non specializzate e su socials è partito un tamtam che, forse, ha ingenerato qualche confusione nella lettura e comprensione, da parte dei non addetti ai lavori, dei risultati di ricerche di genetica delle Popolazioni. Una delle più importanti ricerche in questo settore è stata condotta proprio da voi. Cominciamo, però, dall’inizio. Sei livornese, ti sei laureato nel 1983 e, nel 1987, hai conseguito un dottorato in Scienze Antropologiche a Firenze, nel primo ciclo di dottorato. Poi esperienza all’estero. Sud Africa e, per chi si occupa di genetica ed evoluzione, sei stato a Stanford, il Gotha del settore, con L. L. Cavalli Sforza. Qual è l’oggetto della genetica delle popolazioni e quale il suo rivoluzionario portato?
Dal punto di vista strettamente scientifico, la genetica di popolazioni studia le modalità con le quali i caratteri ereditari vengono trasmessi non tanto dai genitori alla prole, come fa la genetica classica, bensì in popolazioni (animali o vegetali) dette “mendeliane”, ovvero gruppi di individui interfecondi tra loro. È competenza della genetica di popolazioni analizzare la diversità genetica in un certo territorio e le dinamiche che hanno portato nel tempo a quella distribuzione. Quindi, se applicata alle popolazioni umane, questa scienza ci permette di ricostruire le antiche migrazioni, le vicende demografiche, i rapporti tra popoli, in definitiva la storia di coloro che ci hanno portato ad essere quello che siamo. Non deve stupire il grande interesse di molte persone intorno alla genetica popolazionistica, e questo per noi che ce ne occupiamo professionalmente, è al tempo stesso un vantaggio, in quanto abbiamo molte opportunità di comunicare la nostra disciplina al grande pubblico, ma anche un problema, perché capita che il significato reale di ciò che la genetica ci può dire sia spesso travisato ed equivocato. Quello che non sempre è compreso è che noi non racchiudiamo nei nostri geni una sola storia, la nostra, ma tantissime storie, spesso molto diverse tra loro, appartenenti a tutti coloro che ci hanno preceduto.
Proviamo a spiegare, ai nostri lettori, cosa sia il DNA mitocondriale e quale sia la sua importanza nel tracciare mappe evolutive e di migrazione. Sulla errata comprensione di questi dati, purtroppo, abbiamo letto alcuni sostenere che, nella Sardegna contemporanea, sono ancora presenti porzioni di DNA paleolitico. Puoi aiutarci a fare ordine?
Il DNA mitocondriale ha una lunghissima evoluzione, da quando un miliardo di anni fa un batterio fu inglobato da un’antica cellula e, invece di essere digerito, resistette e cominciò a collaborare, diventando, appunto, il primo mitocondrio. Il suo DNA, piccolissimo ma fondamentale per la vita, si trova all’interno di questi organelli, i mitocondri appunto, che si trovano nel citoplasma e si è evoluto separatamente da quello degli altri cromosomi che stanno invece nel nucleo delle cellule. Quando un uovo e uno spermatozoo si fondono, dando origine ad un nuovo individuo, questo eredita esattamente metà dei cromosomi nucleari dal padre e metà dalla madre, ma tutto il suo citoplasma, contenente quindi i mitocondri, viene dall’uovo della madre, senza nessun contributo da parte paterna. Per questo, mentre tutti gli altri cromosomi possono rimescolarsi tra loro, e per questo i figli assumono le caratteristiche di entrambi i genitori, il cromosoma contenuto nei mitocondri non ha una controparte maschile per farlo, e sarà esattamente identico a quello della madre, salvo naturalmente eventuali nuove mutazioni. Per fare un’analogia, mentre il nostro genoma nucleare può essere rappresentato da una pagina scritta in cui posso incollare frasi più o meno lunghe copiate da tantissimi libri diversi e formare un testo del tutto nuovo, il genoma mitocondriale è come un brano che può cambiare soltanto per il casuale accumularsi di errori di stampa, e a partire da queste modifiche si può cercare di ricostruire quello che era il paragrafo originale. Considerando che il DNA mitocondriale viene trasmesso solo in linea femminile, alla fine degli anni ’80 fu possibile risalire al DNA mitocondriale della donna da cui sono derivati tutti i DNA moderni. Visto che le prime diramazioni dell’albero erano presenti solo in individui di origine sub-sahariana, fu possibile ipotizzarne la zona di origine, mentre il tasso di cambiamento, calcolato contando le differenze con il mitocondriale dello scimpanzé, permise di dire che questa persona era vissuta 200.000 anni fa. Senza troppa fantasia, i giornali la ribattezzarono “Eva africana”, ingenerando una certa confusione, visto che questa nostra antenata era certamente esistita, ma non era certo né la prima né l’unica donna esistente in quel momento sulla terra.
Semplicemente era una donna nei cui mitocondri si trovava il DNA da cui sono discesi tutti gli altri. Pochi anni dopo, applicando gli stessi principi, insieme ad un collega italiano definimmo le linee mitocondriali fondatrici degli attuali europei, ovvero delle donne portatrici di mitocondri arrivati sul nostro continente in periodi diversi a partire dal Paleolitico superiore, 45.000 anni fa. Naturalmente queste analisi possono fare luce anche su periodi più recenti e su regioni più ristrette, come la Sardegna e le vicende del suo popolamento. A questo proposito occorre subito smentire un falso mito: la popolazione sarda non è particolarmente antica. Quando in Europa, nel paleolitico, i primi H. sapiens condividevano il territorio con gli ultimi neandertaliani, la Sardegna era del tutto disabitata. E così è rimasta per oltre 20.000 anni fino alla fine del paleolitico superiore, quando si hanno le prime evidenze di occupazione umana alla grotta Corbeddu, presso Oliena. L’isola comincia ad essere abitata più stabilmente nel mesolitico, ma è solo con il neolitico antico, 7.700 anni fa, che l’introduzione degli animali domestici permise quell’esplosione demografica prima impedita dalla scarsità di risorse alimentari, limitate nell’interno dell’isola al prolagus (una specie affine alle attuali lepri) e a poco altro. Da allora però l’isolamento geografico ha fatto sì che i sardi mantenessero integre le proprie caratteristiche genetiche, tanto da renderli peculiari nel panorama genetico europeo. Il recente studio del DNA mitocondriale di oltre 3.000 sardi a cui fai riferimento mostra infatti che circa l’80% delle linee mitocondriali osservate è specifico della Sardegna, ma si sono formate in tempi più recenti, che vanno dal neolitico all’età nuragica. È interessante però notare che la diffusione che si osserva nel neolitico non pare dovuto all’arrivo esclusivo di agricoltori/pastori dal medio oriente, ma sembra avere coinvolto in modo significativo la popolazione mesolitica già presente sull’isola. Un dato del tutto in linea con quanto avevamo scoperto tre anni fa attraverso il cromosoma Y.
Senza voler svelare nulla delle vostre ricerche in corso, alcuni anni fa avete condotto e presentato gli esiti di un lungo studio sul cromosoma Y. Perché dovrebbe essere noto e rilevante anche per i non addetti ai lavori?
Poco sopra ho parlato della capacità che hanno i cromosomi del nucleo di mescolarsi tra loro. A questa regola c’è una significativa eccezione: il cromosoma Y. Infatti, questo cromosoma determina il sesso maschile ed è pertanto assente nelle donne, che hanno infatti due cromosomi X. Ne consegue che il cromosoma Y non ha una controparte con cui ricombinare e, analogamente a quanto abbiamo detto per il DNA mitocondriale, può variare solo per l’accumulo sequenziale di mutazioni nel tempo. Con un significativo vantaggio rispetto al mitocondriale: il cromosoma Y è molto più grande (60 milioni di basi rispetto alle sole 16.000) e quindi potenzialmente molto più variabile, tanto da permetterci di fare ricostruzioni ben più dettagliate. Un po’ come avere una macchina fotografica di milioni di pixel al posto di una di poche migliaia. Il nostro studio, condotto su oltre 1200 cromosomi Y da tutta la Sardegna ci ha aiutato a delineare la storia evolutiva dell’uomo moderno anche al di fuori della nostra isola, spostando più indietro nel tempo l’origine dell’antenato comune di tutti i cromosomi Y attuali, e ha suggerito che l’espansione delle principali linee europee è avvenuta in seguito al ripopolamento successivo all’ultima fase glaciale. Il rifugio cantabrico è stata la fonte del popolamento della Sardegna, e oltre il 40% dei cromosomi Y sardi deriva da un antenato che aveva una mutazione, detta I-M26, sorta a ridosso dei Pirenei, dove è ancora presente, sebbene a percentuali più basse. È interessante notare che alcune tracce di questa prima migrazione siano ancora presenti nella toponomastica, e che accomunano i nomi di località sarde a quelli riscontrati nei Paesi Baschi.
Come confermato anche dal DNA mitocondriale, questi primi abitanti hanno poi accolto le nuove idee dall’oriente dando origine a quella che è stata la “rivoluzione neolitica”, e sono entrate nuove linee cromosomali ad arricchire la variabilità del panorama genetico sardo. Tra questi nuovi arrivi ci sono stati anche i discendenti di quel viandante che 5.300 anni fa si aggirava sulle alpi del Sud Tirolo e che conosciamo col nome di Ötzi. La risoluzione raggiunta dallo studio ci permette di documentare anche flussi demografici meno rilevanti, come i ripetuti contatti tra la Sardegna e l’Africa sub-sahariana, forse mediati dalle vicende storiche legate alla colonizzazione romana o fenicia, e le relazioni con le altre potenze mediterranee, come quella etrusca. A questo proposito occorre rilevare che la presenza di cromosomi tipici dell’Italia centrale in Sardegna e la contestuale assenza pressoché totale di linee sarde in Toscana fa pensare a contatti piuttosto limitati ed unidirezionali, ed esclude invece l’ipotesi avanzata da alcuni linguisti di una eredità genetica comune tra nuragici ed etruschi. Riguardo agli sviluppi futuri della nostra ricerca, nessun segreto. Al momento stiamo lavorando per estendere l’utilizzo del cromosoma Y agli studi sul DNA estratto da materiale scheletrico antico. Questo campo di studio è molto promettente e ha dato risultati importantissimi quando applicato al DNA mitocondriale e ad altre porzioni del genoma, ma non altrettanti con il cromosoma Y. Infatti, la sua analisi presenta dei problemi tecnici che speriamo di superare, in modo di avere una visione ancora più completa del nostro passato, in quanto osservata direttamente su reperti di interesse archeologico.
La genetica delle popolazioni, ha il pregio di mostrarci che l’uomo – come intuito anche dallo scrittore B. Chatwin – ha sempre migrato. Da scienziato, come leggi gli attuali fenomeni di migrazione e che scenari futuri immagini?
Finora ho parlato quasi esclusivamente di DNA mitocondriale e cromosoma Y, ovvero di cromosomi che ci giungono linearmente da un unico antenato, di sesso rispettivamente femminile e maschile. Questo ci permette di ricostruire antichi percorsi migratori che hanno attraversato le generazioni per arrivare fino a noi. Però ci fa anche correre il rischio di identificarci con questi cromosomi, pensando che la storia del nostro cromosoma Y (o del nostro DNA mitocondriale) sia la nostra storia. Un po’ come se avere un cognome originario di una certa area ci facesse pensare di essere in tutto e per tutto appartenenti a quella particolare regione. In realtà il cognome ci viene solo da un ramo della nostra famiglia, quello paterno, ma se consideriamo soltanto i bisnonni, i cognomi sono già 8, 16 se pensiamo ai trisnonni, e così via, raddoppiando il numero ad ogni generazione. Analogamente, se torniamo indietro di dieci generazioni, solo 300 anni fa, avremmo il cromosoma Y di quel particolare antenato paterno, ma soltanto l’1‰ del suo DNA. E certamente sarebbe un errore se identificassimo la nostra storia con la sua, tralasciando il contributo degli altri mille nostri antenati. E per capire il nostro passato ci vengono in aiuto gli altri cromosomi nucleari diversi dall’Y, che ci raccontano non una, ma mille storie che si sono succedute nel corso delle generazioni in un certo territorio e sono condensate nel nostro genoma. In pratica il resto del genoma rappresenta la sintesi di moltissimi percorsi evolutivi differenti, che possono provenire, in ultima analisi, da qualunque parte del globo, e che ci fanno capire quanto sia concettualmente sbagliato immaginarsi una sorta di “purezza” genetica che nessuna popolazione al mondo ha mai avuta. La migrazione e il successivo mescolamento tra le popolazioni umane non è solo un fenomeno storicamente certo, e in futuro inevitabile, ma è soprattutto auspicabile, in quanto produce un aumento della ricchezza di varianti genetiche che rappresentano la “assicurazione sulla vita” che l’evoluzione offre a qualunque popolazione, umana, animale o vegetale che sia.
Qual è, per i genetisti, la rilevanza della Sardegna nel contesto Mediterraneo e mondiale?
La Sardegna è un enorme (e anche paesaggisticamente pregevole!) laboratorio a cielo aperto. La popolazione sarda presenta il vantaggio per un genetista di essere isolata (e quindi soggetta a forze evolutive come, l’effetto fondatore, la deriva genetica, ecc.), ma non troppo (e quindi aperta al flusso genico proveniente dalle popolazioni circostanti). È anche abbastanza grande da poter mantenere molta della sua ricchezza genetica, sia originaria che sopraggiunta, e sufficientemente conosciuta nelle sue vicissitudini storiche da poter datare temporalmente le dinamiche genetiche che la hanno interessata. Anche per questo la Sardegna è stata molto studiata dal punto di vista della genetica medica (fondamentali a questo proposito gli studi condotti da Siniscalco negli anni ’60 sulle talassemie), ma per chi si occupa di genetica di popolazioni è un modello di studio fondamentale. Non a caso, sia con nostro lavoro sul cromosoma Y che con quello più recente sul DNA mitocondriale, la popolazione sarda è di gran lunga la più studiata e conosciuta al mondo.
Come avrai notato, Tribal Networking ha, nella sua ragione d’essere, il concetto di Rotta. L’idea di Rotta, ovviamente, rimanda al saggio di J. Clifford Routes, il quale giocava con l’assonanza fra Roots e Routes. Che idea ti sei fatto del lavoro delle Rotte e, in futuro, ti piacerebbe collaborare e, perché no, tracciare una Rotta con Tribal Networking?
Le vostre due parole chiave sono anche le mie: un genetista di popolazioni in fondo è una sorta di “archeologo” il cui terreno di scavo è il DNA, e in questo substrato cerca sia le radici che le strade che ci hanno portato ad essere quello che siamo. E, visto quello che abbiamo in comune, come rinunciare alla vostra offerta? Sarà un piacere per me collaborare ancora con voi.
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