Buongiorno, Fabio. Nel tuo background è possibile apprezzare un percorso di formazione accademica da storico, con una ricerca dottorale sulla luogotenenza aragonese in Sardegna. Per quanto entrambi si occupino di sistemi culturali e relazioni umani, al netto di alcune eccezioni, tradizionalmente, storici ed antropologi dialogano meno di quanto sarebbe auspicabile, essendo forse indotti ad una reciproca sordità dai rispettivi metodi ed obiettivi: le fonti per gli storici, il campo per gli antropologi. Oggi cercheremo di sfatare il tabù e parlare di temi che stanno a cavallo delle due discipline: il colonialismo, la costruzione identitaria e l’autonarrazione. Anzitutto, come si diventa storici e quali sono, secondo te, le molle che scattano per avvicinare un giovane ad una simile disciplina?

Per quanto mi riguarda, credo che, come accade per molte scelte che ciascuno compie nella propria vita, si sia verificata nel mio caso la realizzazione di un fortunoso incrocio tra la personale curiosità per la conoscenza del passato più o meno lontano, e le opportunità che derivano da incontri con persone (per lo più docenti, ma non solo) che suggeriscono idee e interessi e stimoli intellettuali. Il tutto è stato ovviamente condito con le opportunità che si sono presentate di volta in volta (opportunità che vanno anche cercate) valutate senza reticenze o preconcetti. Da ciò, poi, l’accelerazione verso lidi propriamente accademici si para a volte innanzi. Nel mio caso è apparsa in forma di meteora della quale ho potuto vedere soltanto la coda. Senza rimpianti, ovviamente. Quel che faccio adesso, insegnare italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di primo grado (la scuola media, per intenderci) soddisfa il mio ego sul versante della comunicazione di alcune conoscenze che ho maturate e che mi piace proporre come stimolo o come occasione di ricerca. Ed è qui, secondo me, che si innesta la questione della “molla”. L’interesse verso il passato, inteso ovviamente non come erudita enumerazione di avvenimenti, ma come processo analitico delle relazioni tra accadimenti, situazioni, suggestioni o ipotesi interpretative, deve avere un terreno sul quale aggrapparsi. Questo terreno – nel mio caso – sono state le persone ed in particolare due docenti del Liceo (prof. Antonio Porcu di italiano e latino e prof. Luciano Carta di Filosofia e Storia) e tre docenti dell’Università: la prof.ssa Olivetta Schena, la prof.ssa Barbara Fois e infine – con gratitudine – prof. Francesco Cesare Casula). Come vedi anche qui un’alchimia del tutto casuale che ha fatto sì che il percorso verso la conoscenza del passato e la curiosità che muove alla sua scoperta, mutasse da semplice interesse in realtà di ricerca e studio quotidiano. Come per tutte le faccende umane la combinazione tra curiosità, opportunità è del tutto casuale. A volte è sufficiente essere al posto giusto nel momento giusto, vale a dire trovarsi coinvolti in contesti nei quali possano trovare reale applicazione le opportunità per conoscere.

Benedetto Croce, parlando della Teoria e storia della storiografia, usava dire che “ogni vera storia è storia contemporanea” per dire che, ogni epoca ed ogni società si riscrive il passato a proprio uso e consumo. George Orwell, nel suo celebre 1984, disse che “chi controlla il presente, controlla il passato e chi controlla il passato, controlla il futuro”. Come loro, a partire perlomeno dall’epoca dei faraoni per arrivare alla teoria della propaganda ed i persuasori occulti, in tanti ritengono che il ruolo della Storia sia fondamentale nella gestione del potere e nell’orientamento di un corpo sociale. Oggi, che viviamo in un’epoca di interconnessione, che sembra schiacciata sul presente, cosa resta della Storia?

Della Storia resta tutto, laddove per Storia s’intenda, come ho anticipato, un approccio analitico a fatti e a comportamenti umani e tutto ciò che da essi deriva. Con ciò non ho l’intenzione di sociologizzare (se mi si concede l’espressione) la Storia. È però difficilmente perseguibile lo studio di un fatto (anche remoto) attraverso i documenti che lo descrivono (le fonti di qualsiasi natura esse siano) senza naturalmente riversarvi, oltre alla propria esperienza di vita e/o i propri filtri ideologici, la contemporaneità nella quale si è immersi.

Mi spiego meglio. L’analisi storica del fenomeno delle migrazioni umane del III – V secolo d.C. da Oriente verso Occidente, dall’Asia centrale/Siberia verso l’Europa, sul e oltre il limes imperiale renano-danubiano, non può escludere la rilevazione che quei processi migratori si collegano da un lato all’analisi di altri fatti simili (contemporanei o non) dall’altro che questo genere di processi poggiano su una costante costituita da tre fattori: un “limes” da valicare, un territorio da abbandonare, una nuova terra da raggiungere.
Questo è ovviamente l’approccio che proporrei nello studio di un fenomeno ma mi è sufficiente per affermare che la Storia, intesa come disciplina, è in sé per le sue stesse caratteristiche una sorta di antidoto all’appiattimento della messe di informazioni che si dipanano sulla dimensione unica di ciò che accade in questo preciso istante: la storia come ecoscandaglio dell’attualità in grado di osservarne la profondità e di interpretarne gli scenari. Un po’ come quando tra Due e Trecento si passa dalla bidimensionalità di Giotto alla tridimensionalità di Brunelleschi.

La Storia come strumento prospettico consente di accedere un’area del sapere che è profondamente umana: l’interrogarsi e il cercare soluzioni per formulare delle ipotesi. E questo è a portata di tutti: studenti, docenti, cattedratici o non.

Si dice spesso che la conoscenza della Storia serva a non ripetere gli errori. Marx diceva che tutto si presenta due volte: la prima come tragedia e la seconda come farsa. Vico, invece, riteneva che la Storia fosse organizzata in cicli ricorsivi simili ai loop. La Sardegna, da questo punto di vista, è un terreno interessante in quanto le popolazioni autoctone precedenti la colonizzazione romana, per quanto intraprendenti e tecnicamente avanzate, non ci hanno lasciato nulla di scritto, al punto da doverle ritenere orali. Quel che sappiamo di loro è, pertanto, sempre mediato dalla narrazione di terzi, spesso vincitori e conquistatori. Se Todorov ha potuto raccogliere i Racconti Aztechi della Conquista, parlando delle culture precolombiane, lo stesso non è possibile per la Sardegna. Generalmente, in Sardegna, esiste una profonda ignoranza circa la Storia che si è susseguita sull’isola, e spesso si ingenerano confusioni e contraddizioni tremende. Cosa sappiamo dell’epoca preromana?

Beh, l’epoca preromana è realmente un terreno scivoloso. A parte le fonti archeologiche (peraltro incredibilmente numerose), quelle documentali sono pressoché inesistenti e/o inconsistenti, più ricche di suggestioni che di contenuti. E il passo dall’ipotesi scientificamente sostenibile alla congettura, in queste circostanze, può essere tanto semplice quanto ignoto nei suoi effetti.

Detto ciò – personalmente – mi interrogo sulla validità scientifica dell’assunto che vede i popoli “nuragici” più avanzati sul piano tecnico e tecnologico rispetto alle culture mediterranee loro contemporanee.

Ho l’impressione che si tenda a una sopravvalutazione delle culture autoctone della Sardegna tra l’età del bronzo e l’età del ferro e che al contrario si sottovaluti il ruolo giocato dalla creolizzazione dei sistemi culturali autoctoni del Mediterraneo Occidentale per effetto della spinta proveniente dal bacino Orientale (ma anche dall’Occidente stesso). Per quanto riguarda la Sardegna, che si voglia o no, è dal Mediterraneo orientale che si muovono popoli e culture (e i saperi) prima, durante e dopo la sfioritura della cultura nuragica. Con ciò non ho l’ardire di affermare che da Oriente arriva la civilizzazione del Mediterraneo Occidentale perché evidentemente non è questo il nocciolo della questione in quanto presupporrebbe il concetto di “superiorità” di una parte sull’altra che non mi sento di accogliere come valido. Constato però che mentre una cultura (quella nuragica) tende a perdere una dimensione percepita, tra il Bronzo recente e il finale, come sostanzialmente unitaria, per disarticolarsi e differenziarsi almeno in due aree (coste vs entroterra) fino a mutare in una dimensione altra rispetto a quella d’origine, altre culture d’area orientale (fenicia, egea) si avviano ad allargare il proprio orizzonte consolidando la propria matrice anche con l’adozione delle scrittura. In Sardegna si realizza, e forse questa rappresenta una specificità che in altre aree mediterranee appare meno marcata, un fenomeno – peraltro noto – che vede il contrapporsi (ma anche il giustapporsi o l’aderire) di almeno due aree culturali e in qualche modo politiche: da un lato la parte occidentale e sud occidentale la cui matrice diventa la commistione tra le culture semitiche e quelle autoctone; dall’altro quella dell’area centro orientale dell’isola che tende a mantenere, seppur in forme mutate, un collegamento con le culture autoctone presemitiche. Quando l’isola entra nell’orbita politica e militare della Res Publica Romanorum è questo il contesto con il quale essa ebbe a che fare, non certo la cultura “nuragica” della maturità del bronzo.

Tito Livio ci racconta che a Roma, nel tempio della dea Mater Matuta, i legionari di rientro dalla vittoria in Sardegna (177-175 a. C.) esposero una lapide celebrativa che diceva: « Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco, la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino; per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove.» Secondo te, perché un simile argomento non è studiato ed approfondito nell’insegnamento della Storia della Sardegna a livello scolare?

Dovrebbe esserlo? Mi spiego meglio. Lasciando da parte la questione della attendibilità della fonte letteraria (Tito Livio racconta dell’esistenza di una lapide della quale non esiste traccia che ne confermi in contenuto), mettendo anche da parte la possibilità che realmente 80.000 persone siano state catturate o uccise in Sardegna, per quale motivo gli alunni dovrebbero affrontare quella questione in modo più approfondito di altre? Ammesso che il tema possa essere ricollegato alla più vasta analisi del fenomeno dei genocidi, per quale motivo quello eventualmente perpetrato in questa isola è più degno di essere conosciuto che so di quello degli Indiani d’America, degli Aborigeni d’Australia, degli Armeni o di quanto avvenne alle culture pre-colombiane?

Si potrebbe dire che si tratta della prima attestazione letteraria nella quale si fa riferimento al fatto che la romanizzazione in Sardegna non è avvenuta per effetto dell’egemonia culturale romana, bensì su basi cruente. Forse sarebbe possibile, se fosse dimostrabile, ma la fragilità delle fonti apre lo spazio alle congetture e credo che il genere fantasy non sia del tutto aderente, almeno per quanto riguarda lo studio della storia, alla necessità di far apprendere e comprendere agli studenti i fenomeni storici e nello specifico quelli riguardanti la Sardegna.

In antropologia, si usa parlare di weltanschauung o di “forma di vita” per parlare di una concezione del mondo, della vita e del ruolo dell’uomo che anima un sistema socioculturale. Si tratta, cioè, di un insieme paradigmatico di significati, strutture e relazioni che danno senso al modo di percepire ed agire dell’individuo nel suo mondo. Spesso, si dice che i sardi sono pochi, pazzi e disuniti, e che la loro è una mentalità servile da pastori. Eppure, senza voler scomodare i miti dell’età dell’oro, i dati archeologici ci raccontano di un passato di navigazioni, vinificazione, commercio e capacità costruttive che poco ha a che vedere con un popolo nomade pastorale votato alla sussistenza. Quali strumenti ci offre la Storia per comprendere questo iato?

A distanza di tempo (anche sulla scia della lettura di Maurizio Bettini nel suo “Contro le radici”) ho cominciato a riflettere sul concetto di identità, tradizione, declinato in relazione alla Sardegna e, sebbene il mio percorso soggettivo sia ben lungi dall’essere definito, ho netta l’impressione che proporre la rivisitazione della storia della Sardegna con una modalità che contrapponga quella ritenuta “vera” (cioè il racconto del passato di un eroico e fiero popolo “sardo” di navigatori, commercianti e guerrieri – i tanto acclamati Shardana, per intenderci) in antitesi a quella ritenuta mistificata e libresca che ha affibbiato a chi nasce e vive in Sardegna l’etichetta/stereotipo di popolo di pastori mezzi uomini e mezzi pecore, sia il punto di osservazione che non faccia altro che perpetrare la dicotomia che in qualche modo è simmetrica. È possibile andare oltre? Sì. Il superamento della simmetria sta tutto nell’osservazione delle fonti (materiali, immateriali) del passato e nella ridefinizione delle fasi delle culture che si sono sviluppate e dissolte in altre nello spazio vasto di un’isola tanto grande quanto disabitata.

A mio avviso è proprio evitando le antitesi (quello che Noi Sardi Siamo ed Eravamo vs quello che gli altri pensano che i sardi erano, siano e saranno) che si può proporre un’analisi storica chiara semplice e oggettiva di una cultura passata o in essere.


La conoscenza che abbiamo di noi, dei nostri pregi e limiti, sta alla base di quanto di noi riusciamo a comunicare agli altri. La Sardegna oggi si presenta come un’isola paradisiaca vocata al turismo ed alla produzione di cibi e vini di qualità. Eppure, a dispetto di una simile immagine, è una terra con un tasso di disoccupazione spaventoso, una migrazione degna di un paese del terzo mondo e una bilancia import-export che importa circa l’80% del suo fabbisogno alimentare. Sembra un cortocircuito logico. Cosa non funziona, secondo te?

E qui non basterebbe una pubblicazione! Non vorrei semplificare ma quel che si può rilevare è il persistere e il rafforzarsi di una ‘cultura dell’assenza’, ovvero di un approccio che tende a valorizzare ciò che non c’è e non a interrogarsi su come valorizzare ciò che esiste. La cultura dell’assenza percola su vari livelli dal politico al sociale, dall’economico al culturale.

Mi viene da pensare che sia una forma di deformazione culturale perché curvata sulla necessità di contrapporre quel che la Sardegna era in una fantomatica età dell’oro (Quella nuragica? Quella Giudicale? Quella dei moti angioiani?) – anche alimentata dai falsi miti che celebrano ora la forza virile “sarda” (i Dimonios? Gli Shardana? Mariano IV d’Arborèa? L’Ardia?) ora il “matriarcato”, ora il mondo agro-pastorale (i Mamuthones, i Boves e Merdùles) – all’idea che è stata presentata della Sardegna dai “non-Sardi” come di norma falso in sé, fuorviante e anche offensivo.

Una domanda: ma è possibile uscire per chi nasce e/o vive in Sardegna dalle corde di questa visione per concentrarsi invece su ciò che esiste valorizzandolo? Osservo – ma è solo un’osservazione – che laddove qualcuno o qualcosa ha affrontato il problema o la necessità della valorizzazione in Sardegna, gli effetti, nel medio e lungo periodo, hanno dato vita in qualche occasione a sistemi che bene o male hanno saputo adattarsi ai cambiamenti superando le difficoltà e producendo ricchezza (anche se spesso mal distribuita, ma questo è un altro problema). Gli esempi sono tanti: da Autunno in Barbagia a Cortes Apertas, dalla Costa Smeralda a Tiscali , dal Porto Canale alla Saras. Sarebbero decine gli esempi. Non che sempre siano validi o siano stati duraturi. Spesso hanno generato fenomeni anche controproducenti. Fatto sta che in qualche modo hanno saputo valorizzare (dare valore, dare un senso, dare una direzione) l’esistente. E qui entra in gioco la politica che per me significa tradurre in realtà idee e progetti che sanno valorizzare e che coinvolgono i soggetti e i saperi esistenti. Il problema è però: esiste in Sardegna una classe dirigente in grado di valorizzare?

Il fine di Tribal Networking è creare una rete di reti di consapevolezza e valorizzazione. Quale giudizio può darci del lavoro che abbiamo svolto finora?

A mio avviso va nella direzione giusta perché sa cogliere nel contatto tra saperi/culture il divenire del cambiamento e del progresso. È un progetto ambizioso che affonda le proprie motivazioni nelle due parole “consapevolezza” e “valorizzazione”. Concetti che pur esistendo sopiscono sotto la cultura dell’assenza di cui ho parlato prima. Però, come si dice “gutta cavat lapidem”.