Buongiorno Debora e grazie del tempo che ci concedi. Scorrendo la tua bio, notiamo che dopo esserti laureata in scienze politiche internazionali ed esserti specializzata in comunicazione, attualmente ti occupi di cooperazione e gestisci il sito Mondattivo. Sono sempre più gli italiani che dicono «prima gli italiani». Cosa pensi di questo fenomeno e cosa ritieni debba esser fatto?

L’asserzione “prima gli italiani” rappresenta un cavallo di battaglia di tanta parte della classe politica italiana, in specie della scuola di destra. Tuttavia, senza voler entrare nella specifica porta politica, ritengo che foraggiare l’etnocentrismo italico sia quanto di più sbagliato possa esistere proprio per i politici stessi: infatti, dando spazio e lustro agli autoctoni, ci si può alienare il loro stesso consenso. Mi spiego: se mettiamo in campo politiche di privilegio economico e sociale come stipendi più elevati per gli italiani, assegni mensili per loro e quant’altro, le regioni italiane diverrebbero terreno di scontro tra immigrati ed italiani. Il fenomeno conosce ormai da tempo, la via del “non ritorno”, costituito com’è da flussi incessanti via mare e via terra, vuoi per motivi umanitari vuoi per lavoro. Miope sarebbe la chiusura totale delle frontiere, altrettanto quella delle politiche nazionaliste. Più equilibrata la posizione di chi desidera un welfare state fondato su assegni mensili equiparati ed equamente distribuiti fra stranieri e italiani, asili senza limiti di graduatorie (ovvero senza predilezione dello straniero tout court), ove qualsiasi politica prenda spunto dal criterio di equità, utile a bilanciare gli assetti socio-culturali ed economici in corso e in cui ognuno non si senta discriminato per la sua provenienza.

Quali sono i principali progetti e settori di Mondattivo?

Dopo i nostri primi 4 anni di attività in cui abbiamo redatto diversi progetti legati alla cooperazione internazionali ed organizzato eventi a carattere interculturale, oggi ci volgiamo ad un pubblico più vasto organizzando seminari di gruppo e sessioni individuali riguardanti la mediazione sociale e dei conflitti, la comunicazione efficace, la comunicazione interculturale, comprendendo quindi tutta l’area delle conoscenze antropologiche (entriamo nel vissuto delle persone attraversando il loro background linguistico, religioso, umano costruendo assieme un percorso ad hoc) e, da poco tempo, abbiamo abbracciato anche un prezioso lavoro ormai non più sperimentale, come il Metodo alla Salute, esperienza sorta nel 1977 a Foggia dal Dr. Loiacono, che verte sulla prevenzione e gestione del “disagio diffuso” ed ha come ambizione il ritorno a ciò che solo noi siamo, ovvero il nostro Intero (www.mondattivo.it; www.nuovaspecie.com).

Come immagini il mondo del lavoro fra 25 anni?

Alla luce dei recenti mutamenti che vedono aumentati i contratti di lavoro a progetto e di collaborazione, che purtroppo veicolano con loro un’idea di aumento del proprio background formativo in senso “nobiliare”, mi rendo conto che, in particolare i giovani dai 25 anni in su spesso, non vedono sbocchi occupazionali sentendosi costretti all’emigrazione.
Per coloro i quali restano l’aumento esponenziale delle imposte crea aggravio fiscale per gli imprenditori e non; occorrerebbe a tal proposito, una diminuzione del costo della vita tramite diminuzione dei tassi di interesse e rilancio degli investimenti.
Per evitare scenari futuri disastrosi credo sia necessaria una cospicua e poderosa riforma del lavoro che dia spazio alle giovani leve al mondo femminile, ancora penalizzato negli stipendi consueti.

Quanto ritieni sia importante professionalizzare la mediazione culturale?

A tale domanda rispondo senza esitazione: moltissimo. Nella misura in cui esistono figure ancor poco professionalizzate come quella del mediatore culturale, o meglio interculturale, si metteranno in atto sempre tentativi da parte delle società che li utilizzano di non pagare adeguatamente il preziosissimo lavoro di cucitura e tessitura di una relazione che non è soltanto linguistica, ma in primis umana, poi culturale, comprendendo essi stessi stili e tradizioni di vita differenti fra loro.

Nella tua esperienza, quali sono i principali equivoci con cui ci si scontra nell’incontro con l’altro?

Noto è che per ridurre il pregiudizio bisogna favorire la disconferma degli stereotipi negativi attraverso la conoscenza reciproca dei membri dei gruppi conflittuali. Ad esempio, il pregiudizio verso lo straniero non rappresenta un modello totalizzante, ovvero non investe la quasi totalità dello straniero, bensì assume connotati settoriali, anche in città a vocazione interculturale come Modena e Reggio Emilia (lo confermo abitando in zona). All’interno del contesto e della provenienza africana, ad esempio, il cittadino nigeriano assume connotati più da “malvivente” nelle dicerie popolari rispetto al ghanese o al senegalese, a causa di un certo stereotipo diffuso che vuole la Nigeria madre di tanti sbandati avventurieri in cerca di soldi facili anche senza un percorso canonico privilegiato (lavorativo).
Il mondo orientale poi, vede i cinesi come popolo ancora difficile da configurare, perché le attività di cui si occupano non sono ancora facilmente intelligibili a causa anche di taluni episodi di truffa e mancata igiene balzati agli onori della cronaca ( ad es. carne di cane al posto di vitello o agnello nei ristoranti).

Dalla tua esperienza professionale di mediatrice e formatrice, qual è il più grande insegnamento che hai tratto?

Credo che occorra nel mio ruolo, sempre una buona dose di accoglienza verso l’altro; e per creare quel sottile e coinvolgente strato di amorevole atmosfera necessito di pause e aggiornamenti costanti relativi non tanto agli strumenti motivazionali e/o mediativi, quanto alla presa di coscienza che per entrare nel mondo animico e nel vissuto dell’Altro, ho bisogno di farmi ogni volta, cellula aperta all’ascolto per essere poi pronta all’aiuto e alla trasformazione emotiva e mentale.

Contrariamente a quanto si crede, i numeri ci dicono che ogni anno sono più gli italiani che emigrano in cerca di lavoro, che non gli stranieri ad approdare in Italia. Sembrerebbe aver ragione Chatwin che sosteneva che l’essere umano è, per natura, migrante. Tu dove hai le tue radici?

L’italiano medio ha in sé diverse peculiarità eterogenee, fra cui quella appunto del migrare; inoltre, coniuga in sé aspetti di differente origine e provenienza che lo stimolano alla transizione e allo spostamento.
Per quanto mi riguarda, ho sempre pensato di non esser originaria di questa terra, almeno non in profondità; la mia memoria storica propende per farmi assumere connotati d’altrove, in particolare mediorientali. Quand’ero bambina, non mi rendevo conto infatti, che molti miei compagni mi chiamavano cinese per via degli occhi a mandorla che mi conferiscono un aspetto davvero asiatico; e ancora, tratti afroasiatici m’appartengono dato che il mio naso rivela grazie alle narici più ampie, un nonsoché di africano.
Vero è che i miei viaggi di perlustrazione mi han condotta proprio in terre che testimoniano il mio interesse: Tunisia, Marocco, poi Ghana e infine, Senegal per via dei miei studi inerenti l’antropologia e più in particolare, l’evoluzione del sistema matrilineare presso gli Akan ghanesi.
A giorni comunque, dovrebbe partire la mia ricerca dell’albero genealogico; in questo modo potrò essere davvero più precisa e dare conto se le mie siano solo fantasie ed illazioni, o se invece esse trovano un reale riscontro.

In questi mesi, hai visto nascere e maturare i progetti inveritas.it e tribalnetworking.net, che idea ti sei fatta di questi lavori?

Ritengo che sia inveritas che Tribal Networking siano progetti di ampio spessore culturale in un’era come la nostra, quasi completamente digitalizzata: infatti, al lettore attento non sfuggiranno sia le pagine ben documentate degli eventi che promuovono gastronomia e progetti culturali sul territorio sardo, sia il blog estremamente curato che propone nei sottomenu, altre categorie, quali filosofia, le rotte del gusto e le interviste che rappresentano una fattiva finestra aperta sul mondo.
In un mondo così vasto e complesso, che vuole l’antropologia quale disciplina onnicomprensiva di altre, i siti in questione, a mio avviso, costituiscono un viatico attraverso il quale convogliare i propri interessi di viaggiatore semplice, oppure di turista responsabile, o ancora di semplice curioso ove le più svariate tematiche (dalla cucina alla fotografia, passando dalla pratica del documentario) divengono tracce di sapere e prassi da condividere con altri per rendere il territorio Sardegna sempre più vivido ed affascinante.