Buongiorno Antonio, e grazie del tempo che ci dedichi. Leggendo il tuo CV apprendiamo che hai conseguito una laurea in ingegneria e un master al prestigioso MIT di Boston. Il tuo presente, invece, si svolge ad Olbia, dove hai fondato uno dei primi FabLab della Sardegna. Anzitutto, cosa ti ha spinto a tornare in Sardegna? E quale metodo hai usato per far partire il tuo progetto?

Ho vissuto per circa 18 anni in Sardegna, ora ne ho 38 e vivo tra Olbia ed una delle città più caotiche e decadenti del mondo: Roma. Per tutti gli anni dell’università ho fatto la vita da fuorisede, ossia ritornavo nell’isola solo durante le feste comandate. Una cosa che ho sempre mal sopportato, soprattutto da fuorisede, era quella sorta di serena accettazione del fatto che in città non ci fossero svaghi, non ci fosse mai niente di nuovo o che le novità internazionali arrivassero dopo decenni. Circa quattro anni fa sono entrato per la prima volta nel Fab Lab Roma Makers, per un caso, e ne sono rimasto folgorato. Istantaneamente ho pensato: voglio portare questa meraviglia in Sardegna, in uno dei posti più belli del mondo. Voglio costruire un robot, poi uscire dal laboratorio ed andare in spiaggia. Voglio che le persone dicano: è fantastico che stiate qua. Voglio che i master più famosi al mondo sulla fabbricazione digitale possano essere svolti a pochi chilometri dalla Costa Smeralda (https://vimeo.com/145371388). Da questi pensieri è iniziato il percorso del Fab Lab Olbia.

Operativamente abbiamo avuto una enorme fortuna. Oltre al passaparola tra amici e conoscenti, abbiamo avuto la fortuna di bussare casualmente alla porta di una persona che da subito ha creduto in noi, basandosi con grande fiducia solo sul nostro entusiasmo: Marina Deledda e tutto lo staff della CNA Gallura. Insieme a loro abbiamo potuto iniziare la nostra attività di promozione tecnologica e diffusione culturale dei temi della fabbricazione digitale e della industria 4.0.

Cosa è di preciso un FabLab? Quali saperi e competenze sono richiesti?

La definizione di Fab Lab è in fieri, poichè si va specificando man mano che la diffusione di queste cellule si diffonde per il mondo. Ci può dare una mano la Fab Charter (http://fab.cba.mit.edu/about/charter/) che è una linea guida del MIT che fornisce i cosiddetti sette comandamenti. Nella mia personale visione, un laboratorio di fabbricazione è un centro di ricerca che attinge ad un sapere globale (ci sono circa 600 fab lab al mondo, continuamente connessi da iniziative e scambio di conoscenze) e lo traduce poi localmente, adattandosi alla specificità del luogo in cui si colloca, dando la possibilità di sviluppare concretamente dei progetti mettendo a disposizione macchinari e compentenze legati al mondo della fabbricazione digitale. I fab lab sono considerati dei player importanti nella diffusione al grande pubblico dei temi della Terza Rivoluzione Industriale, ossia la manifattura digitale. La capacità quindi di riavvicinare le persone alla produzione personalizzata degli oggetti anziché alla routine dell’acquisto di prodotti di massa. In conclusione un tramite tra la mass production (figlia della seconda rivoluzione industriale) e la mass customization.

Più prosaicamente per accedere ad un laboratorio non c’è bisogno di specifiche competenze. Al momento il laboratorio è frequentato da ingegneri, pasticcieri, hobbysti, designer, falegnami e così via. L’unica caratteristiche che accomuna queste figure è che esse decidono di mettere a disposizione del gruppo una parte delle loro competenze, ricevendone allo stesso modo diverse. In questo modo molti progetti possono essere estremamente efficaci poiché molto velocemente possiamo aggregare competenze e saperi diversi allontanandoci però dalla “consulenza” classica di tipo professionale.

La stampa 3d ha molti entusiasti fan, ma anche molte persone perplesse dall’idea che stampanti, computer e programmi possano appropriarsi di alcuni compiti manuali intrinsecamente legati alla fabbrilità umana. Ad esempio, l’artigianato. Quali sono i limiti di questa applicazione?

C’è una forte paura proprio da parte di chi fa lavori manuali che queste tecnologie possano o trasformare inevitabilmente il loro lavoro o distruggerlo, facendolo sparire. A volte è inerzia al cambiamento, a volte è paura di non riuscire ad adeguarsi alle nuove tecnologie ed alle nuove modalità di comunicazione. In realtà non c’è nessun obbligo di utilizzare tecniche di “digital fabrication” all’interno di percorsi artigianali tradizionali ! Noi ci vediamo più come una “scatola degli attrezzi” che può essere aperta, esaminata e testata. Essendo promotori di una visione open delle conoscenze, non possiamo che auspicare una sinergia con qualsiasi tipologia di artigiano. Nessuno potrà mai rubare o deformare cinquanta anni di esperienza manuale, come nessuno potrà in breve tempo assorbire la nostra competenza sui temi della gestione e progettazione dei dati 3d. Ma dalla unione di questi due mondi possono nascere contaminazioni favolose: scarpe, biciclette, sedie; nessun oggetto uscirà indenne dalla terza rivoluzione.

Il limite principale è l’essere di moda. Soprattutto con riferimento alla stampa di oggetti solidi (la cosiddetta stampa 3d), i media stanno facendo passare il messaggio che con questa tecnologia si possano stampare solo chincaglierie di plastica, fegati umani o case di cemento. Le connotazioni più profonde di questa tecnologia sono invece rivoluzionarie. Cito due esempi. Il primo è la stampa di una chiave a cricchetto sulla stazione spaziale: sparisce il trasporto di un numero aleatorio di pezzi di ricambio, si ristampa in 3d solo ciò che si rompe (https://www.nasa.gov/mission_pages/station/research/news/3Dratchet_wrench).

Il secondo è la stampa di una protesi partendo da un progetto open-source presente online: tecnologie costosissime fino a dieci-quindici anni fa sono ormai disponibili a pochi chilometri da casa: in un fab lab ad esempio (http://www.thingiverse.com/thing:18939 ).

Quali sono le prospettive di un FabLab in Sardegna?

Le prospettive sono avvincenti ma anche complesse. Credo che il massimo numero di fab lab in sardegna sia stato raggiunto, oramai vi è un laboratorio in tutte le principali città. A mio avviso ci sono enormi spazi operativi, e, in sinergia con imprese e scuole c’è la reale possibilità di apportare forti stimoli. Nella nostro caso, tra i vari esempi, in soli due anni, siamo diventati partner del progetto “Olbi@ in Lab”, un rete di scuole, capitanata dall’Istituto Amsicora di Olbia, di associazioni di categoria (Confartigianato, CNA, Camera di Commercio), di importantissime realtà industriali (il CIPNES), vincitrice di un importante finanziamento di 750 mila euro. Questo progetto mira alla creazione di percorsi formativi scolastici innovativi. A sua volta il progetto si insedierà e svilupperà nell’ambito della ventura Piattaforma Tecnologica Europea.

Sicuramente una sinergia di forze senza precedenti in Gallura. In generale prevedo quindi un forte sviluppo locale dei singoli fab lab, che prima o poi dovrà però convergere in una sorta di top team che coinvolga le eccellenze dei singoli lab e permetta di sviluppare progetti e percorsi di portata nazionale ed internazionale. E’ un mio sogno, abbiamo sul territorio competenze incredibili che sono tornate nell’isola (anche) dopo eccellenti percorsi di studio con l’intento di provare a smuovere quello spleen isolano che spesso sembra non voglia abbandonarci.

In Sardegna esistono altri FabLab. Sono già in atto forme di cooperazione fra di voi, oppure – al momento – vale il detto: “chi fa da se, fa per tre”?

Ad essere pignoli il concetto di rete dovrebbe essere insito nel DNA dei FabLab, poiché come recita la menzionata Fab Chart: “I fab lab sono una rete globale di laboratori locali”. Più prosaicamente, come è ovvio, i laboratori si collocano in uno specifico tessuto locale e quindi in qualche modo ne ereditano pregi e difetti.

Per quanto riguarda l’isola, sebbene le distanze siano minime e sebbene il gruppo dei makers isolani si sia incontrato varie volte in diverse occasioni con reciproco piacere, non si può dire che ci siano in atto reali forme di cooperazione. In passato c’è stata una fumosa iniziativa di creare una rete dei makers, presto naufragata per la mancanza del requisito base: un approccio di tipo bottom-up, dalla base ai vertici. Ma provvederemo presto: è notizia di pochi giorni fa che siamo risultati vincitori di un finanziamento della Fondazione Banco di Sardegna, che destineremo alla organizzazione della prima riunione degli attori del panorama digitale sardo. Si chiamerà “Makers island – L’isola dei makers”. Vi aspettiamo!

Olbia, per molti, vuol dire Costa Smeralda. In che modo, la Costa e la Città hanno reagito al FabLab? Chi sono i vostri principali partners?

Siamo “arrivati” in città a fine 2015. Seguendo le linee guida tracciate da alcuni dei più profondi conoscitori della realtà dei laboratori italiani e non (i.e. Massimo Menichinelli), abbiamo iniziato a tessere una rete di contatti con le principali realtà produttive (associazioni di categoria), educative (istituti scolastici), sociali (il comune) e culturali (mondo dell’associazionismo). La reazione di quelli che ora sono i nostri partners è stata molto positiva: siamo stati subito riconosciuti come un agente innovativo sul territorio. Un aspetto che mi piace precisare è che, concretamente, io ho trascorso solo cinque anni della mia vita ad Olbia, mentre frequentavo il liceo scientifico. Quindi non ho potuto usufruire di quella rete di contatti che avrebbe avuto un “locale”: tutti probabilmente si sono chiesti chi fossi e da dove venissi. Questo ha fatto si però che il lab potesse proseguire nel suo cammino solo con la forza delle idee e dei curricula. Ho glissato sulla Costa perché ancora non ci siamo sbarcati: per ora siamo “giunti” ad Arzachena, dove avvieremo un percorso formativo con l’Istituto Alberghiero per creare una nuova figura professionale: il pasticciere 3D, un cuoco esperto in tecnologie digitali.

Che rapporto avete con le scuole e l’Università?

Per il secondo anno di fila stiamo partecipando al Progetto “Tutti a Iscol@” della Regione Sardegna. I nostri laboratori ad alto contenuto tecnologico (robotica, realtà aumentata e virtuale, Internet delle cose, 3D food, etc.) sono stati approvati dal CRS4, il massimo organo scientifico sardo, e poi sviluppati nelle scuole primarie e secondarie della Gallura. Il riscontro degli studenti è stato molto forte: finalmente hanno potuto divagare dai classici temi presenti nei Piani di Offerta Formativi ed approcciarsi a progetti meno teorici e più applicativi impegnandosi concretamente nella realizzazione anche fisica di prototipi. Con questi laboratori vogliamo che i ragazzi possano visionare in anteprima temi, realtà e problemi che invaderanno la loro vita nei prossimi decenni.

Abbiamo poi rapporti con varie università. L’università degli Studi di Roma “La Sapienza” ci ha coinvolto in un master sul B.I.M. (Building Information Modelling) come esperti di modellazione 3D e delle connessioni tra il mondo del AEC Industry (Architecture, Engineering and Construction) e la prototipazione digitale; a partire dal marzo del 2017 io stesso sarò uno dei docenti del corso.

Sul territorio isolano a breve parteciperemo insieme all’università di Sassari ad un workshop sul turismo “innovativo” e sulle modalità avanzate di fruizione del territorio (realtà aumentata e virtuale).

Nel 2015, in Sardegna, ho fondato un progetto antropologico chiamato Tribal Networking. Cosa pensi del lavoro che abbiamo svolto finora?

Sono sempre stato una persona molto amante della lettura e curioso nei confronti delle realtà a me ignote, per cui apprezzo molto l’intento del progetto di raccontare, mettere in prossimità e continuità le storie e le esperienze del territorio. Solo all’apparenza lontane ma in realtà tutte chiaramente accomunate dall’appartenenza e dalla voglia di migliorare e far crescere il tessuto socio-culturale isolano. Un eccezionale lavoro, continuerò a leggere tutte le vostre interviste.

immagini di © giacomo prasciolu – 2017