Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi della letteratura e dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. Attualmente è Presidente dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo e dirige la rivista Dialoghi Mediterranei.

Antonino Cusumano

Buongiorno Professor Cusumano e grazie per il tempo che ci dedica. Lei si è, da sempre, occupato di antropologia e, attualmente, dirige Dialoghi Mediterranei, rivista che afferisce all’Istituto Euroarabo di Mazara, e la cui mission è favorire il confronto, la consapevolezza ed il reciproco riconoscimento. Volendo partire da una riflessione più ampia sull’antropologia, dovremmo dire che essa, purtroppo, è nata all’interno di un paradigma colonialista e, molto spesso, è stata collusa con progetti di colonizzazione, tanto reale quanto dell’immaginario. Come tutte le forme del sapere umano, rappresentava e rappresenta un potere posizionato e condizionato. D’altro canto, molti antropologi hanno sentito la necessità di dar voce agli altri, facendosi interpreti delle loro istanze. Anche in questo caso, tuttavia, la critica postcoloniale (in modo puntuale) ha parlato di paternalismo. Partiamo da qui. Cosa è diventata, oggi, l’antropologia e quali sono le nuove frontiere della ricerca? Qual è la sua esperienza al riguardo?

Ho incontrato l’antropologia nei miei studi da universitario presso la Facoltà di Lettere di Palermo e, in particolare, in occasione della mia tesi di laurea che, relatore Antonino Buttitta, mi impegnò in una ricerca sul fenomeno dell’immigrazione tunisina in Sicilia. Era il 1972 quando mi laureai, gli immigrati erano ancora poche migliaia e il fenomeno allo statu nascenti. Ma quei flussi, da collocare nel quadro dell’incessante dinamica della mobilità nella storia tutta mediterranea degli ininterrotti rapporti tra la Sicilia e la sponda maghrebina, erano destinati a irrobustirsi e a diffondersi. La tesi di laurea rielaborata e ampliata fu pubblicata da Sellerio nel 1976 col titolo “Il ritorno infelice”, a sottolineare la memoria di una storia plurisecolare che ha operato come un pendolo permanentemente oscillante in quel canale che noi chiamiamo “di Sicilia” e dal lato opposto “di Tunisi”. Da allora, pur avendo maturato interessi scientifici anche per altri aspetti e temi antropologici (cultura materiale, museografia, arte popolare e storia degli studi), ho dedicato gran parte della mia attenzione ai processi migratori che, in corrispondenza degli sviluppi della globalizzazione, si sono incrementati e drammaticamente esasperati.

Nella convinzione che il fenomeno delle migrazioni sia la chiave di volta di tutto quel che la storia ci sta preparando, uno snodo cruciale ed epocale della nostra contemporaneità, “fatti sociali totali” destinati a modificare il profilo antropologico e non solo demografico del nostro continente, ho messo al centro della rivista che dirigo, “Dialoghi Mediterranei”, le questioni culturali connesse alla presenza e alla convivenza degli immigrati nelle nostre città. Il bimestrale online, che è emanazione dell’Istituto euroarabo di Mazara del Vallo, è uno spazio di analisi e ragionamenti nato in gran parte quale osservatorio sulla realtà euromediterranea, sulle sue articolazioni ed evoluzioni. Vi scrivono soprattutto giovani laureati, dottorati e dottorandi della Scuola antropologica dell’Università di Palermo, ma in questi quattro anni di vita si sono ampliate le collaborazioni di quanti sono impegnati a proporre ricerche e contributi di riflessione sulle dinamiche culturali che investono il nostro tempo e le nostre società. L’obiettivo è quello di decostruire le interpretazioni essenzialiste che tendono a oscurare i profili degli uomini e delle donne in carne e ossa – degli immigrati che arrivano, transitano, abitano, lavorano nelle nostre città – entro categorie astratte, rappresentazioni convenzionali, immagini stereotipate.

La prospettiva olistica di uno sguardo prevalentemente antropologico contribuisce a fare chiarezza sugli attuali processi di riarticolazione delle differenze culturali e delle loro rappresentazioni reificate e dissimulate. Parole come cultura, etnia, identità, multiculturalismo e perfino antropologia sono entrate nel lessico comune, nel vocabolario del senso comune, nell’uso mediatico generalizzato, ma rischiano sovente di essere banalizzate e distorte. Da qui la necessità di contrastare le narrazioni strumentali, gli equivoci concettuali, le torsioni linguistiche che si producono e si addensano intorno ad un fenomeno quanto mai complesso. L’egemonia – si sa – comincia dal lessico, dal nome che diamo alle cose, dalle inferenze che nascondiamo dietro le parole. La rivista incarna un progetto culturale che mi pare coerente al fine ultimo dell’antropologia, che è quello di sottoporre a critica ogni ideologia totalizzante e ogni retorica etnocentrica dell’assertività e degli “a priori”. Il tentativo di dare risposte complesse alle domande non semplici del nostro tempo.

Lanzarote (Sp), opere di Jason Taylor deCaires

L’antropologia, a prescindere dalle intenzioni di chi la fa, ha sempre degli effetti pratici che si applicano ed interagiscono con la realtà. Da Gramsci, Cirese prese a prestito il concetto di egemonia e subalternità. Questa distinzione è stata ripresa da Gayatri Spivak nel suo celebre I subalterni possono parlare? Il paradosso, a suo dire, era che per avere quella autorevolezza, era necessario smettere di essere subalterni. Come funziona, a suo vedere, il meccanismo di subalternità narrativa oggi?

Le categorie di egemonia e subalternità, per quanto profondamente mutate sul piano sociale e culturale, non sono tuttavia affatto obsolete e continuano ad essere utili e necessarie per conoscere e capire l’articolazione e l’ordinamento dei poteri e dei saperi. In antropologia, anche in quella riflessiva, la questione dell’altro è sempre una questione politica, e nessuno sforzo di rendere paritario il rapporto sul campo tra i soggetti può elidere ed eludere la posizione gerarchica che è presupposto nel livello sociale ieri e in quello etnico oggi. Egemonia e subalternità non si obliterano attraverso la scrittura che si fa narrazione né attraverso una presunta e improbabile elaborazione polifonica della rappresentazione. Che si tenda a dare spazio a tutte le soggettività presenti sul campo e si adotti una prospettiva dialogica ed empaticamente aperta alla cooperazione, resta il problema della responsabilità, della restituzione del dire e del fare degli altri in una forma di scrittura in cui si depositano comunque il dire e il fare della ricerca dell’antropologo il quale non può sfuggire all’ineludibile funzione autoriale. Resto convinto con Lèvi-Strauss che la conoscenza proviene dalla distanza tra il soggetto e l’oggetto e dal comune sporgersi sui confini per superare le distanze; non sarebbe possibile nessuna conoscenza se non si distinguessero i due momenti e i due movimenti, così che l’originalità della ricognizione etnografica consiste proprio in questo va e vieni costante.

Qualcuno ha scritto che gli antropologi sembrano essere diventati i nuovi narratori della postmodernità. Certo in nessun altro campo del sapere si è registrata una profonda e sistematica opera di revisione critica dei fondamenti epistemologici, a partire dalla scrittura che, rappresentando un poderoso filtro interpretativo delle categorie teorico-metodologiche, rivela direttamente o indirettamente il posizionamento dell’antropologo sul campo e dopo il campo in rapporto ai suoi oggetti di studio. Come è noto, il decostruzionismo ha definitivamente stabilito il carattere di finzione del testo etnografico, esito discorsivo nella cui narrazione concorre assieme all’osservatore anche l’apporto dei soggetti della realtà osservata, pur in una precisa distinzione di ruoli e responsabilità. Scalzare il punto di vista onnisciente e onnipresente dell’antropologo non significa certo pensare ingenuamente di cancellare la funzione autoriale, tanto più oggi che una nuova figura è apparsa all’orizzonte degli studi antropologici: l’etnografo nativo, colui che conduce la ricerca sulla propria cultura e sulla nostra, rovesciando la prospettiva così da rimescolare le carte tra locale e globale e offrire inediti e insospettati livelli di conoscenza e comprensione dell’altro. Sia l’altro da identificare nel “noi” oppure nel “loro”, in ogni caso l’impegno morale e politico dell’antropologo non può omettere di evidenziare le asimmetrie di potere.

Lanzarote (Sp), opere di Jason Taylor deCaires

Oggi, l’antropologia, e più precisamente l’etnografia, devono confrontarsi con i nuovi mezzi digitali a disposizione: blog, social networks, portali, etc. In che modo ritiene che questi mezzi stiano modificando l’esperienza sul campo e le pratiche (anche visuali) di scrittura e rappresentazione della disciplina antropologica? Cosa può dirci della sua esperienza con Dialoghi Mediterranei?

Non c’è dubbio che il campo, per quanto liquido ed evaporato, è anche quello costruito nella rete, e in quanto tale è etnograficamente interessante, una sfida per l’antropologia contemporanea. Si dà vita ad una comunità, si istituiscono relazioni, si attivano forme di comunicazione, si plasmano modelli mentali e comportamentali, si costruiscono identità e alterità. Ma i paradigmi della ricerca vanno in tutta evidenza misurati su una realtà virtuale, artificiale, tecnologicamente“aumentata”. È noto che tutte le rivoluzioni strumentali hanno conseguenze nella vita e nella cultura quotidiana. Nessuno strumento è neutrale. Tanto più quello potentemente organizzato nella rete dove lo spazio e il tempo digitale online hanno indubbia influenza e conseguenza nello spazio e nel tempo offline. All’antropologo tocca assumere quell’osservatorio per rimodulare i concetti e le categorie dell’abitare, del relazionarsi, dell’esperire conoscenze e sensazioni, idee e progetti, sentimenti e immaginazione. Non c’è chi non abbia avuto modo di constatare, anche al livello elementare del quotidiano, quali modificazioni siano in atto nei modi di pensare e di pensarci nella relazione con gli altri e con il mondo attraverso la mediazione di questi mezzi.

Lanzarote (Sp), opere di Jason Taylor deCaires

Se le interazioni coincidono con le connessioni, quel mondo parallelo che si è costruito è pur sempre un campo di pratiche culturali di consumo, di stili, di costumi. In corrispondenza del processo di deterritorializzazione dell’antropologia che non ha più i luoghi elettivi della tradizione etnografica, si è imposta la smaterializzazione della comunicazione unitamente alla sua ipertrofica rappresentazione, alla sua potente pervasività. Tutti i social network sono già diventati densi osservatori di ricerche antropologiche impegnate a decodificare i linguaggi e a interpretarne segni e simboli. Si valutano le loro potenzialità performative, la loro natura narrativa, l’uso pubblico delle identità private. La velocità della trasmissione e la polivalenza delle operazioni secondano modelli culturali ispirati allo stile del multitasking e all’effimero dei flussi ininterrotti di immagini e icone. D’altro canto, la straordinaria libertà di accesso e la larghissima e rapida diffusione dei dati veicolati promuovono nuove e più aperte forme di conoscenza, assicurano il diritto democratico all’informazione.

Dialoghi Mediterranei” è testimonianza concreta della ricerca antropologica in rete, luogo centrale di un presunto non luogo, crocevia di campi etnografici e di orizzonti epistemologici incrociati. Ha costruito attorno a sé una comunità intellettuale non solo digitale che, attraverso la rete virtuale, conduce un intenso dialogo sul mondo reale, così che dallo spazio reticolare del web intreccia relazioni non virtuali né effimere tra autori e lettori e tra gli stessi autori che non si conoscevano fisicamente e hanno creato le occasioni per incontrarsi e confrontarsi faccia a faccia all’interno di convegni e di seminari. In diversi numeri si sono proposte indagini su portali redazionali creati e animati da giovani italo-stranieri, e specificamente dedicati a questioni inerenti le seconde generazioni e l’interculturalità, sui sistemi e le strutture dei blog tematici, sulle feste e le cerimonie rituali veicolate su You Tube o su smartphone, sulle identità frammentate e moltiplicate attraverso selfie e instagram.

Il Mediterraneo, da molti considerato la culla della cultura occidentale, è oggi al centro di traffici e nuove forme di migrazione, veri e propri viaggi della speranza in cui pochi speculano sulla disperazione di tanti. Il sud d’Italia rappresenta uno dei principali approdi. Una volta sbarcati, i migranti, si trovano costretti in situazioni veramente difficili e, talvolta, nascono tensioni con le popolazioni autoctone, spesso fomentate per finalità politiche da individui il cui cinico interesse è cavalcare l’onda. In che modo, secondo lei, l’antropologia dovrebbe inserirsi in queste dispute?

Nella strategia editoriale di “Dialoghi Mediterranei” i processi migratori sono i nodi che tengono la rete, l’ordito che sostiene la trama delle esperienze umane e culturali, il sostrato delle vicende politiche, economiche, letterarie, artistiche, o semplicemente esistenziali. Siamo convinti che guardare al mondo, antico e contemporaneo, attraverso la ricognizione dei diversi aspetti del composito fenomeno delle migrazioni – siano esse transiti, fughe, passaggi frontalieri o vere e proprie diaspore – significa in fondo attingere alle radici di uno dei gangli vitali della mediterraneità, alle origini di quelle permanenze e persistenze che, pur nel divenire, hanno definito l’essere, ovvero quello che siamo, quello in cui ci riconosciamo.

Il Mediterraneo prima di essere un mare, un riferimento geografico e una formazione storica, è un sistema solidale di simboli, un insieme di confini e di frontiere, uno spazio in cui le differenze non si compongono ma si sovrappongono, si ibridano, si mischiano in un gioco di associazioni e di combinazioni. Un luogo, il Mediterraneo, che sembra spazio elettivo delle differenze complementari, in grado di ospitare le diverse appartenenze. Si dice Mediterraneo e associamo all’immagine di questo mare le figure geometriche del reticolo, la complessità di un tessuto ordito da mille fili, di un patchwork polisemico, policentrico, polimorfo. Il modello culturale mediterraneo va letto come un intreccio di flussi e riflussi tra sponda e sponda, tra frontiere che si attraversano e si spostano, di erranze e nomadismi, in una parola di migrazioni. Se c’è un dato connotativo e distintivo, un fattore strutturale e strutturante che identifica nei tempi lunghi della storia l’ecosistema mediterraneo è da ricercare – come insegna Braudel – nelle forme pluridirezionali e plurisecolari delle migrazioni, in quella trama di connettività umane e culturali che ha tenuto insieme nord e sud, est e ovest delle rive di questo mare, incastonato fra tre continenti.

Oggi il Mediterraneo è tornato ad essere epicentro gravitazionale di movimenti umani epocali. Da qui l’attenzione strategica cui è chiamata l’antropologia per capire la genesi dei flussi, le categorie semantiche dei confini, le diverse forme dei neorazzismi, le criticità nei sistemi di riconoscimento dei diritti, le dialettiche culturali in ordine alla convivenza inter-religiosa, l’emersione di nuove soggettività, di nuove esperienze di cittadinanza. La cronaca quotidiana si incarica di porre domande a cui gli antropologi possono contribuire a dare risposte. Si pensi alle questioni del velo, della costruzione delle moschee, all’impatto delle tradizioni familiari degli immigrati nella vita delle nostre città, alle trasformazioni e alle conflittualità interetniche dei quartieri urbani, alle dinamiche culturali nelle scuole, negli ospedali, nei tribunali, negli uffici pubblici. Quale altra disciplina se non quella di frontiera come l’antropologia può disporre degli strumenti euristici necessari all’attraversamento dei confini culturali e alla comprensione di quei fenomeni che sollecitano ogni giorno un confronto con modi di vivere, abitare e pensare diversi dai nostri?

foto di Morena Anzalone

J. Diamond, un noto geografo americano, ha dato alle stampe un libro dal titolo “Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?” ll mondo attuale sta confrontandosi con una crisi di paradigma e valori. Caduto il muro, il neoliberismo si è imposto come ideologia dominante. Il capitale finanziario ha progressivamente sostituito l’impresa, il profitto e l’accumulazione sono definitivamente diventati il metro di misura del valore. Come suggerisce Diamond, esistono, tuttavia, delle realtà residuali – culture ancora non (totalmente) fagocitate dal mercato. Lei reputa che ci possano insegnare qualcosa? E sopratutto ritiene che noi siamo disposti ad imparare qualcosa? Nella fattispecie delle migrazioni mediterranee, ad esempio, il sud Italia si caratterizzava per lo spirito di accoglienza e la cultura del dono. Esistono ancora questi tratti culturali?

A fronte delle cupe fobie occidentali, delle logiche di esclusione e di discriminazione elette a sistema di legge e di pattugliamento militare, credo che l’umanesimo incarnato nei valori dello scambio e del dono, dell’ospitalità e dell’accoglienza, della comunità e della solidarietà, valori che sono costitutivi del patrimonio etico e civile delle culture del mondo mediterraneo, rappresenti una lezione di grande attualità. Senza voler scivolare nella retorica di idilliche e mitiche narrazioni, nella storia e nella cronaca troviamo conferme all’immagine di un Mediterraneo in cui l’incontro e lo scontro tra civiltà, religioni e lingue diverse, in mezzo a mille contraddizioni, hanno trovato e trovano le forme temperate della loro coesistenza e convivenza, essendo riconducibili all’opera di una lenta sedimentazione dalle complesse stratificazioni.

Esistono molti riscontri oggettivi alla tesi di un Mediterraneo allergico a tutti i fondamentalismi, spazio di inclusione e non di esclusione, di integrazione e non di integralismo, ove Oriente e Occidente si rendono indistinguibili nella commistione delle diverse identità. Più della storia che possiamo leggere nei libri, vale l’osservazione di quanto accade oggi sotto i nostri occhi, riguardo al modo di porci in rapporto con gli immigrati che arrivano sulle coste dei Paesi mediterranei, che abitano nelle città meridionali. In Sicilia, per esempio, forse la memoria di quel pezzo di Rinascimento che fu l’età arabo-normanna ha non solo impedito l’insorgere di conflitti etnici ma ha anche favorito la pronta e generosa disponibilità all’accoglienza e all’asilo dei profughi. Certo, quel trattino, che definitiva uno splendido amalgama di arte e civiltà realizzato nella Sicilia di Ruggero II, univa ciò che oggi teniamo separato, faceva dialogare mondi che qualcuno si ostina a dichiarare inconciliabili, rappresentando la prova inconfutabile che le culture non sono incompatibili ma se mai incomparabili.

La verità è che il Mediterraneo non è “luogo comune” ma un “luogo in comune”, un crocevia di attraversamenti umani dove tutto è già accaduto, anche quello che deve ancora accadere. Qui è possibile la coesistenza delle differenze più estreme, la commistione di elementi arcaici e moderni, la pluralità di realtà contraddittorie e contrapposte. Qui si spiegano e si dispiegano storicamente e dialetticamente emigrazione e immigrazione, le memorie del passato e le dinamiche del presente, gli Ulisse di ieri e di oggi.

Teatro Garibaldi, Mazara del Vallo

Tornato in Italia, ho fondato dapprima il progetto inveritas e poi quello di Tribal Networking. Sono due contesti operativi in progress, che cercano di costruire reti di consapevolezza ed autoconsapevolezza. Come giudica questi progetti?

Amo la Sardegna che, a differenza della Sicilia, comunica la percezione dell’isola, della sua solitudine in mezzo alle acque, perché, come diceva Giulio Angioni, «la meno esposta alle comunicazioni fra tutte le grandi e piccole isole del Mediterraneo». La sua sardità – tratto costitutivo della sua storia tutta interna – ne fa una terra fortemente connotata da sostrati e da permanenze culturali, da trame di atmosfera in cui coagulano suggestioni e risonanze intellettuali e sentimentali. Di questa immagine della Sardegna, che mi ha sempre particolarmente affascinato, ritrovo nei progetti Inveritas e Tribal Networking l’ibrido intrecciarsi di motivi e temi diversi in una perfetta ed elegante sinestesia. Ciò che colpisce è la bellezza iconografica, la ricerca raffinata delle immagini, l’estetica creativa delle pagine, la pluralità interdisciplinare delle rotte che descrivono una originale rete territoriale, percorsi inesplorati di uno straordinario genius loci.

Ps. Nel 2015, Antonino Cusumano ha intervistato il suo maestro Antonino Buttitta. L’intervista è scaturita in un libro, Orizzonti della memoria di Antonino Buttitta, Conversazioni con Antonino Cusumano.