Buongiorno Sergio e grazie per l’intervista. Tu sei un etnoantropologo guatemalteco e il Direttore di un Istituto di Studi Umanistici presso la Universidad Rafael Landívar. Vorrei, pertanto, approfittare di questa occasione per un ragionamento ad ampio raggio dinamico sugli sviluppi antropologici in corso in questo scorcio di III millennio. In Europa i partiti di estrema destra (quando non quelli neo-Nazi e/o neofascisti e/o  xenofobi) stanno allargando il loro consenso in seno alla società. Stando a quel che si apprende dalla cronaca politica internazionale, USA e GB stanno entrando in un’aggressiva fase di autoprotezione. Russia e Turchia, invece, dopo aver avuto una forte tensione, hanno iniziato nuove guerre di religione e collaborazione che interessano il vecchio e nuovo mondo. La Cina, negli ultimi dieci anni, ha mutato le sue politiche e sta uscendo con sempre maggior forza dal suo isolamento, acquistando il debito dei paesi occidentali, sempre più terreno in Africa e prendendo il controllo di multinazionali strategiche. Per quanto concerne il Medio Oriente, se così si può dire, prosegue nel suo incancrenire tensioni e conflitti globali su scala locale. Alcuni sociologi e filosofi parlano di crisi di valori e di un mondo gestito da Corporations il cui unico scopo è quello di controllare sempre più risorse, sempre più persone e, in ultimo, la riduzione in neoschiavitù degli individui e la colonizzazione delle altre culture, rendendole omogenee e conformi ai principi del capitalismo finanziario. Sembrano argomenti che hanno poco a che fare con i sistemi culturali locali, e che non dovrebbero influenzare il lavoro sul campo degli antropologi, tuttavia, sappiamo per esperienza che, quel che succede a livello globale, si ripercuote inevitabilmente sulle strutture locali. Dalla Guatemala, come puoi interpretare gli eventi del mondo di oggi?

Nel 2017, abbiamo osservato i risultati della complessa evoluzione del sistema-mondo capitalista (la cosiddetta mondializzazione del capitalismo), il cui più potente processo di espansione iniziò nel XV secolo con la Conquista e la Colonizzazione di quel vasto mondo che è oggi noto come le Americhe. A seguito di incessanti e continue guerre ed invasioni, l’Europa occidentale ha fondato il suo progetto di civiltà, implementando questo modello a livello planetario. Naturalmente, questo modello si è via via realizzato con differenze notevoli nei diversi continenti e regioni, ma ciascuna sua differenziazione è una variazione sul tema basato sul capitalismo come sistema economico di base. Cominciando a contestualizzare la risposta, due momenti cruciali nella storia delle Americhe sono il 1776, quando in Nord America 13 colonie aderirono ad una Federazione di Stati proclamando la loro emancipazione in Inghilterra; e il 1865 quando, con la vittoria degli yankees, gli Stati Uniti rafforzano la propria posizione come enclave extra-continentale dell’Europa sul suolo americano. Questo Paese è il risultato e il punto di partenza di uno dei più potenti motori di spinta capitalista nella storia universale. Nei secoli trascorsi dalla Conquista, possiamo vedere come la volontà di dominio sui popoli e il controllo della loro ricchezza, siano diventati i cardini della “religione” del capitalismo, e sotto la guida degli Stati Uniti – con la sottomissione compiacente e compiaciuta degli Stati dell’Europa occidentale -, il mondo ha continuato a fare progressi nell’attuazione del capitalismo ovunque. Arrivando all’oggi, non sorprende allora vedere le zanne di questo modello conficcarsi nella gola di tutta l’umanità, minacciando seriamente la nostra sopravvivenza come specie (oltre a tutte le altre specie animali e vegetali estinte in corso d’opera). Dato che il capitalismo è un sistema economico e politico di portata planetaria, gli eventi del mondo attuale sono indissolubilmente legati al suo processo di evoluzione.

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È facile, allora, comprendere che lo stato di devastazione ecologica e sociale che sconvolge buona parte del nostro pianeta, e in particolare in Guatemala, sia una diretta conseguenza di questo sistema, dei suoi modelli di produzione, circolazione e consumo di beni. Da individui, cittadini e professionisti delle scienze sociali, ci troviamo dinnanzi ad una realtà globale nella quale il capitalismo ha impresso un forte impatto culturale trasformando profondamente le relazioni e le condizioni di vita in ogni angolo del pianeta. In questo contesto, ovviamente, non possiamo trascurare di riflettere sulle innumerevoli guerre in Europa: fin dalla sua nascita e nel corso di diversi secoli questo modello di sviluppo ha accompagnato la propria espansione con aggressività, ingenerando o causando guerre su tutti i continenti, esportandosi e gemmandosi altrove e trasformando le proprie pratiche in una sistematica impresa di Conquista e Colonizzazione. In Guatemala e Centro America viviamo in questa sorta di “Antropocene” capitalista e ne constatiamo tutti i suoi rischi ed i suoi limiti. Le nostre odierne società sono il risultato di secoli di collisioni, scontri e confronti fra processi culturali con radici mesoamericane e le dinamiche aggressive del sistema di mondializzazione capitalista. Sulle nostre terre il neoliberismo multiculturale è esploso in forma particolarmente virulenta, costringendoci a fare i conti con feroci politiche estrattive (veri e propri atti di saccheggio del territorio), che sono state facilitate dall’accordo delle imprese trans e multinazionali con gruppi di potere locali. Una particolare fattispecie, nel nostro caso, ha a che fare, infatti, con la fitta serie di interessi e legami che le imprese straniere sono riuscite a stabilire con gruppi economici nazionali emergenti, sorti nel dopoguerra (1996-2005) dalla fusione degli interessi del grande Capitale con quelli dei militari e dei trafficanti di droga(1). In Guatemala, insomma, viviamo  con piena intensità tutte le tendenze del sistema di mondializzazione capitalista, e purtroppo nessuno dei suoi aspetti ci è sconosciuto, con la particolarità (giusto per non farci mancare nulla) che siamo parte del “ventre profondo” dell’impero americano, non il retro del loro “cortile”. Per questo siamo sottoposti ad una pressione maggiore che, paradossalmente, non ci ha ridotto all’immobilità o alla passività politica. Mi azzardo a dire, anzi, che il mio Paese sta vivendo questa fase della storia del mondo comportandosi come una Nazione che lotta, con grandi rischi e difficoltà, e che non si arrende. Forse, questo comportamento è un tratto dell’impronta delle civiltà mesoamericane che sopravvivono in noi.

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La nostra disciplina è nata come parte del discorso coloniale. A volte gli antropologi hanno consapevolmente partecipato a questo processo, altre ne sono stati protagonisti inconsapevoli. Se qualcosa abbiamo incontrovertibilmente imparato in quasi 150 anni di disciplina ufficiale è che la conoscenza neutra non esiste. A tuo giudizio, cosa è oggi l’antropologia? Quali i suoi compiti?

Nonostante tutte le criticità emerse, anzi forse proprio per la sua capacità di farvi fronte e reinventarsi, reputo a tutt’oggi che l’antropologia sia la più completa delle discipline della famiglia allargata delle scienze sociali. Penso infatti che nella tradizione antropologica siano stati anticipati molti dei temi problematici ed affrontati molti degli sviluppi concettuali che oggi fondano le basi nel campo della multi e transdisciplinarietà. Come dici tu, sgombriamo subito il campo: al pari di tutte le altre scienze, nemmeno l’antropologia produce un sapere neutrale, perché ogni sapere scientifico è sempre al servizio di un qualche interesse spurio e delle sue soggiacenti cause: nella migliore delle ipotesi, la pratica antropologica soggiace agli interessi di chi, storicamente, la implementa e, nel suo caso, è praticamente impossibile separare la ricerca dal ricercatore che la svolge. Nel nostro contesto centroamericano, purtroppo, l’antropologia è ritenuta una disciplina di scarsa rilevanza. La sua marginalità è rinforzata dalla mancanza di fondi che le Università le destinano per la ricerca, il che riduce notevolmente la possibilità di muoversi verso nuovi orizzonti nella produzione di conoscenza. Il supporto dello stato per la ricerca e l’insegnamento in antropologia è estremamente limitato e le agende di ricerca antropologica sono condizionate, quando non addirittura determinate, dagli obiettivi degli enti e delle fondazioni in grado di finanziare. Insomma, quel che interessa ai Paesi ed alla Società Imperiale ottiene finanziamenti con facilità, mentre ciò che interessa ai popoli ed alle persone si vede costretto a barcamenarsi in mezzo ad ogni tipo di limitazione. Tuttavia, la rivalutazione della pratica antropologica, e la percezione del suo valore, sono andati in crescendo dopo gli Accordi di Pace.

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Credo che la causa principale di questa rivalutazione risieda nel fatto che le domande inerenti la nostra complessità socio-culturale, in un’epoca di relativa pace, diventavano centrali in una società affetta dalla disuguaglianza, dalla guerra asimmetrica e dal genocidio. Penso però che, piuttosto che parlare di una sola antropologia, dovremmo parlare dei discorsi dell’antropologia e che questi siano collegati direttamente con chi li pratica, con i loro obiettivi ed i loro orizzonti ideologici. Oggi, in Guatemala ci sono antropologhe ed antropologi al servizio delle classi dirigenti e dalle Corporations transnazionali. Poi, ci sono coloro che seguono lo slogan accademico del decadente multiculturalismo neo-liberale. Infine, ci sono antropologhe ed antropologi appassionatamente impegnati nella lotta dei popoli, la cui pratica scientifica si rivolge a cercare chiavi di interpretazione e comprensione della nostra complessità socio-culturale, con l’obiettivo di muovere verso l’emancipazione e una seconda indipendenza. Osservando la realtà da un’altra prospettiva, credo anche che in Guatemala si stia aprendo cammino ciò che possiamo chiamare un’antropologia del sud e per il sud; un argomento che sarebbe interessante da affrontare, considerate le sfide metodologiche che presuppone e che ci impone di affrontare, testando i postulati dell’antropologia classica e dei suoi importanti ed innegabili sviluppi. Lungo questa direttrice, sarebbe importante sostenere e rafforzare la pratica di un’antropologia critica, che tuttavia affondi le proprie radici nella tradizione e nel patrimonio teorico-metodologico accumulato in questi 150 anni di vita della disciplina. In conclusione, non voglio trascurare un’amara considerazione, ovvero che l’Antropologia deve fare i conti con tutta una serie di pseudo pratiche accademiche e politiche che hanno afflitto il discorso accademico e politico, infarcendolo di pregiudizi, stereotipi e concetti residuali, mi riferisco a tutto ciò che,  sotto l’egida degli Stati Uniti, si ripara sotto l’ombrello dei “cultural studies”. Ma questo, magari, è meglio considerarlo il tema di una nostra futura discussione.

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A quanto pare, la Guatemala è un Paese che ha avuto un passato glorioso fino al X secolo. In effetti, quando arrivarono i fratelli Alvarado, la civiltà Maya era già in crisi. Gli spagnoli, nel corso dei secoli, hanno sfruttato il territorio per coltivare principalmente coloranti fino a quando, nel XIX secolo, è stato scoperto che la Guatemala era il luogo ideale per la coltivazione di banane e caffè. Il potere reale si spostò in mani straniere e la popolazione guatemalteca (già abbastanza divisa) cominciò a vivere un periodo di colonizzazione tanto duro quanto lungo. Dal punto di vista culturale, per noi addetti ai lavori, il vostro Paese rappresenta una vera miniera preziosa: Maya, Nahuatl, Hidalgos, creoli, Ladini, etc. Un numero enorme di culture che hanno creato una quantità enorme di sincretismi. Differenti identità culturali che hanno fatto i conti con molteplici meccanismi di colonizzazione culturale, e, sopratutto, la capacità di resistere e mantenere la propria identità da parte dei colonizzati. Nel vostro territorio, sono presenti luoghi, come la Città di Mirador, che sono ora stati reinglobati dalla foresta. Sulla vostra pelle si sono sfidate la cultura capitalista e la cultura comunista. Insomma, la Guatemala rappresenta il sogno di ogni scienziato sociale, in particolare di antropologi e archeologi. Che cosa significa per voi praticare l’antropologia in un simile contesto?

L’odierna Guatemala affonda le proprie radici in oltre cinquemila anni di storia mesoamericana, ed è il risultato di una storia dialettica complessa che – fino al 1523 – ha visto protagonisti i vari Nahua, Otomanguean e Maya. La guerra di conquista durò da allora fino al 1697, quando nel Petén fu espugnata l’ultima città Maya. Prima di quella data, nel 1631, era toccato alla regione di Verapaz essere annessa, essendo stata resa pacifica dall’evangelizzazione attraverso la parola dei Domenicani. Quella guatemalteca è, in effetti, una società coloniale la cui prima fase abbraccia 174 anni di guerra continua (1523-1697). Dopo il 1697, nella “pacificata” Guatemala (e fino al giorno della dichiarazione di indipendenza dalla Spagna nel 1821), si contano quaranta grandi rivolte e sommovimenti indigeni, con una media di un’insurrezione ogni tre anni. Per non parlare delle innumerevoli ribellioni di minor importanza e la cui esistenza è solo ricordo nella memoria orale. Sono queste le condizioni che hanno prodotto la nostra attuale società, fatta di abbondanti e complessi meticciati, profondi scontri culturali e desiderio di giustizia e di uguaglianza. Per me la pratica antropologica è un esercizio di scoperta dell’alterità e della mia identità, aspetti che non possono essere visti separatamente. Credo che il più importante dovere dell’antropologia, nel contesto che ho vissuto, consista nel seguire a ritroso il percorso dei miei antenati. Avendo scelto come miei antenati gli uomini e le donne che hanno combattuto, progettato e dato vita alla speranza di costruire un vero e proprio Paese per tutti. In questo senso, per me, la pratica antropologica coincide con un consapevole esercizio di scavo delle e nelle radici costituenti del mio popolo: un popolo fatto di molti popoli! Questo significa, tuttavia, anche l’accettazione della mia profonda ignoranza della storia dell’Honduras e della complessità della storia dei popoli antichi. Popoli dotati di lingue in grado di trovare 30 significati ed utilità diverse per piante che io conosco solo attraverso il loro nome in castigliano e di cui, a malapena, so dire una funzione o un’applicazione. Vista così, per me l’antropologia è la sorpresa permanente davanti a quella che potrebbe essere la regione mesoamericana. Come si può capire, per me l’antropologia non è un mero esercizio neutro di registrazione ed interpretazione dell’alterità mesoamericana, piuttosto la considero un intenso impegno esistenziale nei confronti della lotta storica dei popoli di quest’area.

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Nella tua Università, chi sono i giovani studenti che si interessano a questa disciplina? Quali sono i loro sogni e le loro ambizioni?

L’Università Rafael Landívar (dove io lavoro) è un centro di istruzione superiore affidata alla Compagnia di Gesù. Si tratta di una università che non possiede un corso di laurea in antropologia, che in Guatemala viene realizzato solo in due università: l’Università di San Carlos, che è l’università pubblica nazionale; e l’Università della Valle, università privata e di costo elevato. Tuttavia le tematiche antropologiche ricorrono in quasi tutti i corsi di laurea della nostra Università. Basandomi sulla mia esperienza, quelli che maggiormente si avvicinano alle grandi questioni antropologiche sono i giovani che studiano scienze della comunicazione, scienze politiche e filosofia e lettere. Sono loro che, mediamente, hanno maggiori inquietudini a confrontarsi con la questione della cultura. La loro gamma di interessi antropologici va dall’interesse per l’imprenditorialità culturale – il Turismo, ad esempio – fino all’impegno politico che risale alle lotte dei popoli Maya. Per quanto posso capirne, mi sembra di notare che la prospettiva antropologica li aiuta a mettere in discussione se stessi e la loro identità culturale. Da questo punto di vista, mi lascia basito la profonda ignoranza che i giovani meticci (per non dire degli stessi Maya) hanno della loro storia e della loro memoria collettiva. La società guatemalteca, egemonizzata dalll’ideologia razzista dei creoli, ha di fatto smarrito (o forse rotto) il filo della memoria collettiva, e aiutare i giovani a riprendere a tessere questo significativo legame con il passato e il presente, è un compito importante che può essere svolto solo tramite un insegnamento con un approccio antropologico. Ho notato che dopo essere stati esposti alle domande che la nostra disciplina impone, un buon numero di giovani scopre un vivo interesse per l’apprendimento deli aspetti significativi della cultura mesoamericana, ed il loro recupero. Vogliono cimentarsi con le indagini sul campo, viaggiare e vedere posti e contesti nuovi. A quanto pare, insomma, approcciare l’antropologia fa fiorire in questi giovani molte domande che sbloccano la loro fantasia e la loro voglia di conoscenza.

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In che modo ritieni che i nuovi media digitali e i social network, possano influenzare il nostro lavoro?

I nuovi media digitali e le reti sociali sono risorse di grande potere nel nostro ambito di lavoro. Cioè, per me in quanto antropologo, poter disporre di una connessione di interazione sociale con più reti virtuali; avere la capacità di accedere alle informazioni in tempo immediato; e far circolare e veicolare messaggi istantaneamente, sono risorse portentose. Tuttavia, ci troviamo di fronte alla sfida di non perdere i sacrifici e la mediatezza richiesti da una conoscenza approfondita. Sempre più spesso, purtroppo, capita di confrontarsi con persone, istituzioni e scenari che hanno deliberatamente sacrificato la profondità del pensiero critico sull’altare di una immediatezza di facile comprensibilità dei fenomeni culturali, farcita e condizionata dall’uso di linguaggi standard che presumono di poter spiegare tutto, ovvero nulla. Credo che una delle sfide del nostro presente abbia a che fare con la salvaguardia della qualità e della profondità della conoscenza che circola sulle reti rispetto ad un pubblico sempre più abituato al facile, semplificato e immediatamente comprensibile. Ritengo che tutto questo dovrebbe essere soppesato con attenzione perché le risposte non sono semplici, ma continuo a pensare che viviamo una rivoluzione nel campo della comunicazione, una rivoluzione che non corrisponde a ciò che accade in altri ambiti della realtà. Tuttavia, nutro la speranza che riusciremo a trovare il modo di implementare gli aspetti positivi e ridurre il rischio di scadere nella vana superficialità.

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Come immagini il futuro della nostra disciplina? E soprattutto, pensi che l’antropologia meriti un riconoscimento professionale più coerente di quello attuale? Pensi che in futuro ci sarà più bisogno di antropologi o no?

Reputo che l’antropologia sia una scienza umanistica e che, in quanto tale, dovrà combattere contro la massificazione dei modelli culturali imposti dalle dinamiche del sistema capitalistico mondiale. Tuttavia, sento e vedo che in risposta alle dinamiche di massificazione dei gusti e delle esigenze imposte nel mondo contemporaneo, le persone cominciano ad orientarsi sempre più verso ciò che, in ogni cultura umana, è unico, specifico ed irripetibile. In questo campo l’antropologia potrà godere di un intrinseco vantaggio, perché è in grado di vedere esseri umani complessi, misteriosi e distinti laddove le altre discipline sociali vedono solo clienti, consumatori, tendenze e statistiche.

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In Italia, e precisamente in Sardegna (l’isola dove nacque Antonio Gramsci e morì Giuseppe Garibaldi), ho fondato un progetto antropologico chiamato Tribal Networking. Che cosa pensi del lavoro che abbiamo svolto fino ad ora?

Mi piace molto il vostro approccio, frutto e risultato di una squadra compatta e versatile dove è evidente che ciascuno si esprime al meglio della sua specialità. Soprattutto penso che il vostro sia un lavoro creativo e stimolante che riesce a inserirsi nel mondo reale contemporaneo e a catturarne la ricchezza dell’avventura antropologica. Tribal Networking – Rotte del Gusto è di fatto un progetto interessante e molto ben pianificato, il cui obiettivo è parlare ad un pubblico esigente e di palato fino, un pubblico costituito da chiunque sia alla ricerca di qualcosa che si differenzia e distingue da tutto ciò che oggi è monotonia ed omogenizzazione. Per questo mi congratulo con voi, e lo faccio, permettetemi, con una sana invidia per l’audacia imprenditoriale che avete avuto, e per essere stati capaci di supportarla con competenza e rigore scientifico.

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Nota

(1) Nel corso della storia del capitalismo si sono susseguite due guerre mondiali e una fitta serie di guerre calde e fredde ovunque. Ora la distruzione delle società e degli stati del Medio Oriente è l’ultimo grande risultato dell’evoluzione del capitalismo contemporaneo. Senza dilungarci in questa sede, ricordiamo solo in tempi recenti che cosa ha significato l’Olocausto: unaa guerra per il saccheggio e il controllo delle risorse naturali dei paesi del Medio Oriente e l’espulsione di migliaia di arabi e africani verso l’Europa. Guerre Spurie combattute dietro false bandiere, con mercenari (contractors) ovunque. È enorme il numero di persone che, rischiando la vita, attraversano il mare nostrum europeo, ormai divenuto un immenso cimitero liquido. Per non dire dei fortunati (sic) che raggiungono la loro destinazione e scoprono in loco di essere destinati ad una collisione con le società locali che li rifiutano e, inferiorizzandoli, li disprezzano.

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immagini di © sergio mendizábal – 2017